Tunisia: lo scenario elettorale del 2011 si ripete. Il 26 ottobre alle urne si presentano 1.327 liste con 15.652 candidati per eleggere i 217 deputati del nuovo parlamento. Al primo turno delle elezioni presidenziali del 23 novembre i candidati saranno 27. La possibilità di riunificate in un’unica coalizione tutte le forze laiche per evitare una nuova vittoria degli islamisti di Ennahda è fallita. «Non sono bastati tre anni d’incubo per evitare questa nuova frantumazione dei partiti della sinistra», mi dice molto rammaricata Nora, da sempre impegnata a difesa dei diritti delle donne.
Lo scontro reale di queste elezioni non è tanto sui programmi quanto su due modelli antitetici di società: quello laico o secolarista (come preferiscono definirlo i tunisini) e quello islamista. Ma a determinare il voto sarà anche il fallimento del governo della Troika guidato da Ennahda (in coalizione con due partiti laici) – a cui è seguito uno tecnico dal gennaio scorso – nel trovare soluzione ai problemi del paese, soprattutto quelli economico-sociali (disoccupazione ufficiale al 15%, inflazione al 6%). Ennahda viene accusata di non aver contrastato il terrorismo, alimentato dalla Libia, che ora si ispira allo Stato islamico di al Baghdadi. Anzi un giornale del Kuwait nei giorni scorsi ha accusato il leader islamista Rachid Ghannouchi di finanziare l’Isis.

Tra i molti disillusi vi è però ancora chi considera i religiosi più onesti e continuerà a votarli. Del resto Ennahda gode come sempre dell’appoggio della tv del Qatar al Jazeera, che per scagionare Ennahda dalle responsabilità sull’assassinio del leader del Fronte popolare Belaid Chokri, addossa il crimine a Nida Tounes, principale rivale degli islamisti nella campagna elettorale. E per farlo non esita a infangare l’immagine di Chokri e della moglie Basma Khalfaoui. Ma il leader di Ennahda Rachid Ghannouchi gioca su più fronti e nel suo ultimo viaggio negli Usa alla fine di settembre, il quinto dal 2011, ha affidato alla Burson-Marsteller, azienda leader nella comunicazione, la gestione della propria immagine.

Secondo i sondaggi della vigilia il partito Ennahda viene dato testa a testa con Nida Tounes (appello della Tunisia) il cui leader è l’87enne Beji Caid Assebsi, già ministro degli esteri di Bourghiba, e presidente dopo la caduta di Ben Ali, nel 2011, prima delle elezioni. Il partito laico, formatosi dopo le elezioni del 2011, viene però accusato di avere al proprio interno esponenti del passato regime, che sembrano più interessati a candidarsi alla presidenza che al parlamento.

Mentre infuria la guerra mediatica che coinvolge soprattutto i due partiti maggiori, i loro leader si spostano per conquistare le roccaforti avversarie: Rachid Ghannouchi si gode il bagno di folla a Sfax, seconda città del paese e roccaforte di Ben Ali e Beji Caid Essebsi è a Kairouan, una delle città sante dell’islam. Sebbene la Tunisia sembri orientarsi verso lo scontro bipartitico, a determinare il risultato contribuirà sicuramente i voto dei partiti minori, le candidature «fantasma» e soprattutto la frammentazione della sinistra. A sinistra, infatti, oltre al più connotato ideologicamente Fronte popolare, che basa il suo programma sulla giustizia sociale, lo sradicamento del terrorismo e l’impegno a far luce sull’assassinio di Belaid e Brahmi, altri partiti come al Massar (emanazione del vecchio partito comunista) si presentano invece con l’Unione per la Tunisia.

Questa frammentazione della sinistra sta convincendo militanti di quest’area – l’abbiamo potuto constatare direttamente – a votare Nida Tounes, unico partito in grado di ostacolare la vittoria di Ennahda. Il «voto utile» è un argomento che suscita molto dibattito soprattutto sui social network e coinvolge molte donne, le più penalizzate dal governo islamista. Ma c’è anche a chi non basta la reislamizzazione di Ennahda e soprattutto vorrebbero che la costituzione fosse emanazione diretta del Corano (la sharia, legge coranica). Come la lista Echaab Yourid (il popolo vuole, una coalizione di gruppi salafiti) che presenta tre candidate con il niqab (velo integrale). La questione della riconoscibilità delle candidate è stata posta dall’Istanza superiore indipendente per le elezioni (Isie), e si porrà anche per chi andrà a votare. Ma c’è anche una lista, i «Miserabili», che non mostra la foto delle candidate (tutte le liste devono essere formate per il 50 per cento da donne e 50 per cento uomini) per «evitare molestie» (!) alle loro rappresentanti. Ispirandosi al romanzo di Victor Hugo, questo gruppo di giovani, in maggioranza disoccupati, dice di voler dare «una speranza alla nuova generazione».

«Abbiamo fatto la rivoluzione, ma stiamo ancora soffrendo emarginazione e povertà, nel 2011 abbiamo votato partiti che ci hanno traditi così abbiamo deciso di candidarci», sostiene Ali Ben Mussa, intervistato da al Ahram. Il loro programma è tutto su una paginetta gialla: riforme amministrative, potere alle municipalità e maggior sostegno alle nuove generazioni. Rottamazione alla tunisina.

In questa farraginosa campagna elettorale dove le promesse vanno dalla difesa dell’identità arabo-musulmana, alla democrazia, dalla lotta contro il terrorismo all’impegno contro la disoccupazione, la precarietà e la corruzione, non mancano le denunce per le violazioni della legge elettorale, soprattutto nell’uso dei media privati e delle moschee. Ed è in questo quadro che si fanno avanti anche personaggi come Slim Riahi, milionario appena tornato dalla Libia, che cerca di conquistare i voti a Sidi Bouzid, la città natale di Bouazizi, il ragazzo che immolandosi ha dato il via alla rivoluzione. Proprio qui la delusione è molto forte: «Nulla è cambiato. L’unico modo per trovare lavoro è cercarlo in Europa o in Nordamerica», dice un ragazzo alimentando, probabilmente, un’altra illusione. Per il momento si può approfittare dell’ultima occasione: i soldi di Slim Riahi, era già successo nel 2011 con Mohammed Hechmi Hamdi.

Ma ci sarà anche chi per protesta non voterà, gli iscritti alle liste elettorali sono poco più di 5 milioni, su oltre 8 milioni di aventi diritto. Già nel 2011 aveva votato solo il 51,97%, ma allora c’era entusiasmo, ora c’è disincanto.