È ancora senza nome l’attentatore della strage di capodanno al club Reina di Istanbul. Ad oltre 60 ore dal sanguinoso attacco nel cuore della città sul Bosforo, la polizia è impegnata in una caccia all’uomo che per ora non ha prodotto risultati. L’attentatore, secondo le voci che circolano sui principali media, avrebbe origini centro-asiatiche, ma le autorità mantengono assoluto riserbo sullo sviluppo delle indagini, che avrebbero condotto all’arresto, nella città di Konya, di una donna considerata la moglie dell’attentatore.

È PERÒ SVANITA LA PISTA che, ieri, conduceva a Iakhe Mashrapov, 28enne di origini kirghise: nome e passaporto dell’uomo sono circolati in rete e rilanciati anche dall’account Twitter della televisione di stato TRTworld. Masharapov, dopo il rientro in patria, ha rilasciato un’intervista all’agenzia stampa kirghisa Turmush e ha dichiarato di essere stato trattenuto per un’ora in aeroporto ad Istanbul, salvo poi essere rilasciato dalla polizia turca, che si sarebbe scusata con lui, dopo che l’uomo avrebbe dimostrato di essere arrivato ad Istanbul soltanto il 1° gennaio.

NEPPURE L’IRRUZIONE della polizia nel quartiere di Zeytinburnu, durante la quale sono state fermate 10 persone, ha finora condotto le autorità a svelare l’identità del responsabile. Quello di capodanno è l’ultimo di una serie di 20 attentati che hanno colpito la Turchia, causando 358 morti, a cui si aggiungono le disastrose condizioni nel sud est in seguito alle operazioni di repressione della militanza autonomista curda da parte delle forze armate.

LE OPPOSIZIONI INSORGONO ancora una volta e accusano il governo non solo di incapacità nel fermare la minaccia, ma di essere esso stesso alla base della violenza che sconvolge il paese. Il partito Hdp, i cui leader e numerosi deputati sono stati incarcerati da diversi mesi, ha condannato l’attentato attraverso un comunicato rilasciato poco dopo l’attacco.

In una serie di tweet sull’account ufficiale del partito sono state chieste a gran voce le dimissioni del ministro degli Interni – «100 morti negli ultimi due mesi non sono sufficienti?»- e si è sostenuto che il governo stia portando avanti una strategia della tensione e della paura finalizzata ad attrarre sostegno al referendum per l’introduzione del sistema presidenziale, previsto per la prossima primavera. Il leader d’opposizione Chp Kiliçdaroglu ha duramente attaccato il governo in occasione dell’incontro settimanale tra parlamentari del partito repubblicano Chp. Secondo Kiliçdaroglu, il governo ha aiutato e sostenuto organizzazioni terroristiche, ma nessuno si prende la responsabilità del fallimento nel proteggere i cittadini del paese. Punta poi il dito contro le responsabilità del governo nel coinvolgimento in Siria: «Avete mandato armi in Siria e ora queste stanno tornando indietro».

L’ATTACCO DI CAPODANNO è infatti il primo attentato apertamente rivendicato dall’Isis attraverso l’agenzia stampa del Califfato Amaq. Le operazioni militari turche ad Al-Bab, nel nord della Siria, avviate l’estate scorsa con l’obiettivo di impedire il ricongiungimento dei cantoni curdi di Afrin e Kobane e rinvigorire l’opposizione anti-Assad, hanno scatenato minacce dirette ed esplicite nei confronti della Turchia sia attraverso diversi account Telegram considerati vicini allo Stato Islamico, sia attraverso il magazine online Rumiyah.

L’Isis paga il fio del proprio fallimento nel contenere l’avanzata curda nel nord della Siria, che ha spinto Ankara ad un intervento diretto: una punizione a cui il Califfato non vuole sottoporsi senza replicare. Nel frattempo ben più efficaci, rispetto alla caccia all’uomo, sono le misure adottate dal governo nei confronti dei social-media. Il vice primo ministro Numan Kurtulmus ha annunciato l’avvio di indagini contro 347 account che, celebrando le gesta dell’attentatore, avrebbero «seminato discordia nella nazione». Sulla stessa linea le dichiarazioni del primo ministro Yildirim, che ha raccomandato ai giovani di fare attenzione nell’uso dei social media perché «i post di natura criminale porteranno a conseguenze».

CONSEGUENZE DETTATE dalla formula magica del «sostegno e propaganda in favore di organizzazioni terroristiche» che, grazie ad una legge antiterrorismo priva di definizione certa, consente al governo di considerare una minaccia alla nazione tutto ciò che non rientra nelle proprie compiacenze. Vaga la legge, vago il monito delle alte cariche dello stato, è facile intuire come questi indagini siano il preludio all’ennesimo giro di vite nei confronti della libertà di espressione nel paese.

A dimostrazione di quanto il governo intenda ignorare la necessità di una strategia della distensione, di cui il paese avrebbe immensamente bisogno, ed invece calcare il piede sull’acceleratore della repressione, il Primo Ministo Yildirim ha annunciato l’estensione dello stato di emergenza per altri 3 mesi, introdotto a partire dal luglio scorso con il tentato golpe.

Nel frattempo tuttavia sono stati dichiarati chiusi, senza troppe cerimonie, i lavori della commissione parlamentare che doveva indagare proprio sui fatto del 15 luglio, con risultati poco concreti. È innegabile che il governo consideri il paese all’alba di una fase storica di cambiamento: la transizione dalla Turchia di Atatürk, rigida nel suo autoritarismo atlantico e nella sua laicità elitaria, già ferita dal colpo di stato del 1980 e dall’inaugurazione della sintesi turco-islamica, alla «Nuova Turchia» di Erdogan, capace di ereditare dal predecessore gli stessi metodi di repressione che avevano colpito la popolazione conservatrice al suo sostegno, e che oggi pare ansiosa di ritorcere contro i vecchi aguzzini e ogni altro avversario.

Per questo progetto, ogni passo indietro diventa impensabile, si può soltanto andare avanti, costi quel che costi.