Obama aveva a malapena lasciato il podio del suo storico discorso cubano l’altro giorno che nella casella e-mail sono arrivate le prima offerte. Quella della Travelzoo per esempio col soggetto «Visita Cuba prima del pienone. Offertissime per il 2015!». Un altra agenzia promuove tariffe «scontatissime» se si prenota subito il tour all’Avana e a Santa Clara con escursione optional alla Baia dei Porci, tanto per rimanere in tema.

Nel giro di poche ore tra stampa e internet ronzavano voci e opinioni sul Cuba-boom prossimo venturo. I viaggi delle agenzie per ora sono ancora offerti ancora sotto regime di quote limitate a «scambi culturali» ma nella mente degli impresari più intraprendenti già si configura lo tsunami di turisti finalmente liberi di invadere le spiagge cubane a fianco delle controparti europee e canadesi.

«Siamo felici per il popolo cubano e impazienti di approfittare delle opportunità nei viaggi e nel turismo che potranno creare molto lavoro quando i rapporti fra i nostri paesi saranno normalizzati», ha dichiarato Arne Sorenson, presidente della Marriott International. «Attendiamo di avere ulteriori delucidazioni dal governo degli Stati Uniti ma speriamo di poter presto aprire alberghi a Cuba come al pari di molte società di altri paesi».

Un boom all inclusive

Con entusiasmo appena contenibile il capitale americano anticipa un boom caraibico che nel turismo ha il primo naturale obbiettivo. Alberghi, resort e villaggi turistici più l’indotto: il fast food, bibite, servizi e prodotti di mirati a quegli stessi viaggiatori dell’all-inclusive. Un’economia autocontenuta ad uso e consumo di un turismo di alto bordo.

Una visione di divertimentificio cubano che rimanda almeno nelle febbrili immaginazioni di alcune multinazionali all’isola pre-castrista o alla zone a statuto turistico come la paurosamente cemetificata «Riviera Maya» del Caribe messicano. Non accadrà subito e molto dipenderà dalle sorti dell’embargo una volta che sarà insediato il congresso a maggioranza repubblicana che potrebbe rallentare le riforme con tattiche ostruzioniste, a cominciare dal blocco dei finanziamenti per una nuova ambasciata. Ma anche già nel medio termine con l’aggiunta dei visitatori nordamericani i turisti a Cuba potrebbero passare in fretta dagli attuali 3 a 4 milioni.
È ancora cioè molto presto ma le reazioni immediate del gran capital americano sono un anticipo di ciò che ci si può aspettare. Ad aspettare dietro l’angolo non è solo l’industria del turismo di massa, altri comparti come l’agricoltura industriale concupiscono il potenziale di esportazione, una volta sollevate le sanzioni verso un mercato sostanzialmente vergine.

Il disgelo cubano ha fatto venire l’acquolina in bocca a Silicon Valley. Non tanto per la prossima apertura di Apple store sul Malecòn dato che i gadget high tech difficilmente sarebbero da subito alla portata dei consumatori cubani. Per l’alta tecnologia Usa, Cuba ha semmai valore prima di tutto come potenziale serbatoio di mano d’opera, soprattuto nel comparto labor intensive dell’assistenza di servizio.

Nella visione del big data americano nel futuro di Cuba potrebbero esserci distese di call center. Così finalmente tutta quella potenziale forza lavoro famosamente scolarizzata potrà essere messa a buon frutto in sottolavoro appaltato da high tech e grandi aziende. «Potenzialmente molto meglio dell’India» esulta sul proprio sito la International Association of Outsourcing Professionals, associazione di categoria dei delocalizzatori di servizi, alla prospettiva di un nuovo serbatoio di poveri nello stesso fuso orario, aggiungendo: «Si stimano oltre 60 mila potenziali operatori sull’isola che sarebbero pronti ad essere ingaggiati». L’associazione pubblica articoli con titoli come: «Assumere immigrati clandestini deportati a Tijuana» e compila la top ten delle città più idonee all’outsourcing.

Su San Pedro Sula in Honduras scrive: «Certo la violenza è un inconveniente ma le potenzialità di mano d’opera sono quasi illimitate». E alla lista di ideali località per lo sfruttamento amerebbe certo aggiungere presto le città cubane.

Fidel e i New York Yankees

C’è infine un altro settore entrato da subito in fibrillazione ovvero il beisból, lo sport nazionale che storicamente lega i due “nemici”. Fidel, a suo tempo giocatore dilettante, non nascose mai la passione per il baseball e il tifo per squadre come i New York Yankees. E l’isola è da sempre una potenza internazionale. Sono decine i campioni che giocano oggi nel campionato americano dopo aver lasciato Cuba e allo scopo c’è una florida tratta di giocatori gestiti da “agenti” che trafugano giovani promesse con la prospettiva di contratti miliardari negli States.

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Yasiel Puig

L’anno scorso hanno fatto scalpore le rivelazioni sulla rocambolesca fuga di Yasiel Puig da Cienfuegos per diventare stella superpagata dei Los Angeles Dodgers. La storia di Puig ha portato alla luce la rete criminosa gestita da operatori senza scrupoli che utilizzano i narco-cartelli messicani per portare in America i giocatori (Puig venne tenuto sequestrato per settimane da scafisti armati in una casa di Isla Mujeres mentre si trattava sull’ingaggio).

Una possibile fine dell’embargo aprirebbe la prospettiva di un mercato aperto – e ricco.

Appena dopo l’annuncio di Obama la lega americana ha emesso una nota “cautamente ottimista” in cui si dice che «pur mancando i dettagli per una valutazione effettiva, stiamo attentamente seguendo gli sviluppi e informeremo le squadre su eventuali modifiche rispetto a potenziali ingaggi cubani».

Più esplicitamente entusiasti molti agenti sportivi e procuratori specializzati come Jaime Torres che ha rappresentato molti giocatori-defettori e che ha dichiarato: «Sta cominciando qualcosa di grosso. Lo speravamo sin da quando Barack Obama è stato eletto nel 2008. Ora finalmente ci siamo».