Possono succedere cose senza che nulla di nuovo accada? Si direbbe un paradosso, ma è la cifra dell’Italia al tempo del renzismo.
Avvenimenti si succedono, per un verso, senza posa. Questo governo licenzia leggi aberranti a raffica (il Jobs act, il superporcellum detto Italicum, la «buona scuola»). Lavora alacremente a devastare la Costituzione, a smantellare il welfare, a polverizzare il sindacato. Non perde occasione per radicalizzare il mix di austerity antisociale e liberismo fiscale, e fa strame ogni giorno dei regolamenti parlamentari riesumando i fasti del trasformismo e della «malavita». Eppure, con tutto ciò, non accade nulla che modifichi anche in piccola parte il quadro.

Per cui manca la materia per un’analisi che accompagni il prodursi degli eventi sviscerandone via via significati impliciti e riposti. Con la comprensione del connotato restauratore del governo Renzi si è colto l’essenziale e risolto al tempo stesso ogni dilemma interpretativo. La cronaca non produce alcuna novità sostanziale e ogni analisi tende fatalmente a ripetere se stessa.

Sappiamo ormai da tempo chi è questo preteso campione del cambiamento: l’esecutore spregiudicato – rozzo ed efficace, efficace perché rozzo – del programma di normalizzazione neoliberale del paese; il delegato determinato e zelante del capitale privato incaricato di garantire l’osservanza dei dettami dell’eurozona senza al tempo stesso minimamente interferire nelle due più vistose peculiarità italiote: l’arretratezza tecnologica e il divario tra Centro-Nord e Mezzogiorno.

Il che significa in soldoni oligarchia, disoccupazione di massa e sperequazioni crescenti. Detto questo, quanto pur rapidamente accade sembra inscriversi ordinatamente nello schema, limitarsi a proiettare la sistematica realizzazione del piano. L’incalzare degli avvenimenti pare risolversi in un’esibizione di surplace, in un falso movimento. Suscitando l’impressione di vivere come al rallentatore, in una zona di sabbie mobili. E di assistere, torpidi e impotenti, al proprio affondamento in assenza di contraddizioni, di conflitti, di quelle convulsioni che in altri frangenti accompagnerebbero lo svolgersi dei processi.
È così? Si tratta di un’impressione fondata? E se sì, come spiegarla? Azzardiamo due ipotesi, restando in dubbio su quale ritenere più plausibile.

La prima chiama in causa la regressione della politica ad amministrazione, corollario della scomparsa di qualsiasi opposizione. Cioè il fondamento stesso della Costituzione materiale della Seconda Repubblica. La politica nella modernità vive del confronto tra diverse idee di società, tra diverse culture, tavole di valori e di finalità. C’è stata politica in Italia sino al tempo della Guerra fredda e finché il socialismo è apparso una concreta possibilità, auspicata o esecrata. Dacché si è estinta l’idea di una possibile alternativa di società, la politica è tramontata. Il confronto verte esclusivamente su aspetti tecnici e sulle costellazioni di interessi da privilegiare o discriminare.

Così questa ipotesi spiega il ridursi, sino a dileguare, dello spazio dell’analisi politica. Il venir meno del confronto politico toglie ossigeno al lavoro analitico. Lascia sopravvivere solo la cronaca, che si dispone disciplinatamente nel quadro egemone, univoco e invariante. Se questo è vero, l’Italia di Renzi non è affatto un inedito. La situazione è questa, in realtà, già da 15 o 20 anni. Ciò che caratterizza l’oggi è il grado di evidenza raggiunto dal processo, il suo imporsi finalmente come un dato di fatto acquisito e non controvertibile.

C’è un’altra spiegazione possibile, che rovescia radicalmente la prospettiva adottata. Si può infatti negare che non vi sia più materia per analisi che nel registrare il prodursi degli avvenimenti e lo svolgimento dei processi ne individuino trasformazioni essenziali. Tutto dipende, stando a quest’altra ipotesi, dalle categorie d’indagine. Che vanno finalmente rinnovate di sana pianta perché i mutamenti verificatisi nella politica globale sono stati profondi, tale da inficiare criteri e riferimenti ormai obsoleti. In effetti non lo si può escludere. Il punto è che a ben vedere questa seconda ipotesi converge nella prima e non fa che ribadirla.
Se cerchiamo di circostanziare le ragioni dell’inattualità dei vecchi strumenti di analisi per muovere verso la costruzione di una nuova «cassetta di attrezzi», la prima cosa che ci troviamo a dover ridefinire è proprio l’idea di politica. Che si può intendere in tanti modi e che nulla impone di ricondurre al tema fondamentale dell’alternativa e della trasformazione.

Non è inevitabile assumere la polarità politica/amministrazione come si è fatto in precedenza. Mentre si può benissimo considerare politica a pieno titolo anche la materia del confronto tra democratici e repubblicani negli Stati uniti, tra laburisti e conservatori in Gran Bretagna, tra socialdemocratici e democristiani in Germania. Questo dice del resto oggi il senso comune, figlio della dottrina thatcheriana dell’inesistenza di alternative al capitalismo. Ma in questo modo non si fa che riconoscere che si è finalmente compiuto anche in Italia un mutamento profondo – forse epocale – rispetto al mondo sortito dalle guerre mondiali.
Che gli uni sostengano che la politica è morta, ormai sostituita dall’amministrazione, dalla tecnica di gestione dell’esistente, e gli altri replichino che essa si è soltanto trasformata, che al tempo della mondializzazione neoliberale la politica coincide con la governance e la governamentalità, poco cambia. Comunque si evoca un processo di normalizzazione e l’instaurarsi di una prospettiva naturalistica che, derubricato il tema della trasformazione, dismette l’attitudine comparativa con altre possibilità sistemiche. Di tale mutamento è indispensabile prendere atto se si intende preservare un interesse critico. Se si tratti o meno di un mutamento irreversibile è difficile a dirsi. Di certo lo sarà se non se ne è nemmeno consapevoli.