Gli autisti di Uber sono lavoratori, dice un tribunale del Regno Unito. La sentenza può cogliere di sorpresa, ma è una tappa fondamentale per la regolamentazione della cosiddetta gig-economy. I presunti «lavoretti» sono sanciti come lavoro a tutti gli effetti e non si potrà più parlare di persone che svolgono questa attività come hobby, dopo oggi. Le corti del Regno Unito non sono necessariamente labour friendly nelle cause di riqualificazione del rapporto di lavoro, né la legislazione del lavoro post-thatcheriana è nota per la sua generosità nei confronti dei lavoratori. Molto spesso, anzi, cause che in altri Paesi si concluderebbero con una vittoria dei lavoratori vengono decise in favore dei datori di lavoro.

Il tribunale ha stabilito che gli autisti svolgono un’attività lavorativa e che Uber coordina sostanzialmente questa attività. Per la corte, questo è vero nel modo in cui l’azienda esegue colloqui di lavoro o nel fatto che decida unilateralmente il prezzo di ogni corsa, non dando all’autista la possibilità di concordare col cliente un pagamento più alto. Ancora, per la corte Uber «impone numerose condizioni agli autisti» e ne controlla «in molti modi» l’attività. Infine, attraverso le recensioni dei clienti, l’azienda sottopone gli autisti alla propria direzione del lavoro e al proprio potere disciplinare. Ciononostante, gli autisti non sono stati dichiarati «subordinati» a tutti gli effetti. Nel Regno Unito esiste infatti una categoria di lavoratori intermedia tra chi è subordinato («employee») e chi è un libero professionista del tutto indipendente («self-employed»).

Chi ricade in questa categoria viene definito «worker» e ha diritto al salario minimo e alla ferie. Gli si applicano inoltre le norme sull’orario di lavoro e contro la discriminazione. I workers, però, non hanno alcuni diritti che spettano solo ai lavoratori subordinati, come la tutela contro il licenziamento illegittimo.

Per essere considerato worker non è necessario provare il vincolo di subordinazione, indispensabile per essere lavoratori dipendenti. È sufficiente che il lavoro sia eseguito personalmente, senza, ad esempio, poter inviare sostituti al proprio posto. È anche essenziale che non si lavori nell’ambito di un proprio business gestito autonomamente.

Gli autisti di Uber hanno beneficiato di questa definizione di worker, meno stringente rispetto a quello del lavoro subordinato e che comporta, di conseguenza, diritti inferiori rispetto a quelli degli employees veri e propri.

Per qualificare gli autisti come workers, la corte ha ritenuto che i drivers di Uber non gestiscano, ciascuno, un proprio autonomo business. Questa è una delle questioni fondamentali nella gig-economy e nella sharing economy, con cui spesso la prima è confusa.

La retorica propagandata dalle aziende, infatti, è che quando non sono persone che lo fanno per hobby, i lavoratori delle piattaforme siano in realtà delle microimprese, veri e propri «imprenditori di sé stessi». Il tribunale londinese ha invece respinto come «leggermente ridicola» l’idea, avanzata dall’azienda, che per Londra ci sia un «mosaico di 30 mila piccole imprese [gli autisti di Uber – NdA] legate da una comune piattaforma». Sono gli autisti che lavorano per Uber, non è la piattaforma ad essere al servizio dei drivers, per il giudice. È probabile che ci sia un appello, e la strada perché a tutti i lavoratori della gig-economy vengano riconosciuti i basilari diritti sul lavoro è ancora lunga, anche perché non tutte le piattaforme di lavoro nella gig-economy funzionano con le stesse caratteristiche di Uber, che anzi rappresenta un esempio abbastanza estremo di coordinamento dei propri lavoratori. Come già detto, poi, gli autisti londinesi non sono stati riconosciuti come dipendenti a tutti gli effetti ma come workers: lavoratori con diritti, sì, ma limitati.

Rimane però che questa è la prima sentenza di tribunale che affronta il tema del lavoro nella gig-economy e lo risolve in favore dei lavoratori. Dire che si tratti di semplici lavoretti fatti per hobby sarà molto più difficile.