Nell’est dell’Ucraina si combatte da quattro mesi, con conseguenze gravissime sia sul fronte delle vittime (ormai più di duemila), sia su quello umanitario. Dalle aree di Donetsk e Lugansk, le due roccaforti della Nuova Russia, l’entità creata dai separatisti, sono fuggite almeno 300mila persone. Una fuga continua, soprattutto da Lugansk, dove l’assedio dei governativi è sempre più serrato e da dove ieri è giunta una notizia terribile. Una colonna di veicoli, a bordo dei quali c’erano dei civili diretti verso la Russia, è stata colpita da razzi e colpi di mortaio. Molti i morti, a quanto pare. I militari ucraini hanno accusato i filorussi, i quali hanno però puntato l’indice contro i primi.

Nel frattempo è sempre fermo alla frontiera il convoglio umanitario allestito da Mosca. Nell’ultima tornata di negoziati tra Russia e Ucraina, mediati da Francia e Germania, si sarebbe raggiunta un’intesa che permetterebbe agli autotreni, più di 250, di transitare verso le aree di crisi. Non prima tuttavia di essere ispezionati minutamente dagli agenti ucraini. Le procedure saranno lunghe e gli aiuti russi potrebbero essere preceduti da quelli che sta organizzando l’oligarca Rinat Akhmetov, l’uomo più ricco del paese, magnate dei metalli. Molte delle sue fabbriche si trovano a Donetsk e il suo sforzo serve sicuramente a salvaguardarle. Ma il tycoon ha anche bisogno di rifarsi un’immagine, data la sua scomoda compartecipazione alla cricca guidata da Yanukovich.

La partita di Akhmetov dimostra che al fronte dell’est si affianca quello non guerreggiato della gestione degli equilibri economico-politici a Kiev. Gli oligarchi, detentori di una larga fetta di Pil, affilano le lame. Akhmetov sta cercando di riposizionarsi su una scacchiera dominata da Petro Poroshenko e Igor Kolomoisky. Il primo, arricchitosi con il cioccolato, è stato eletto presidente. Il secondo, a capo della potente Privat Bank, è il governatore di Dnepropetrovsk. La sua nomina, arrivata a marzo, è stata dettata dall’esigenza di usare il suo potere finanziario affinché l’insurrezione filorussa non arrivasse a Dnepropetrovsk, la città economicamente più avanzata del paese.

Kolomoisky ha usato modi rudi e sfruttato abilmente la polarizzazione della società, rafforzata dalla guerra a est, allo scopo di presentarsi come il massimo interprete del nazionalismo radicale, che a Kiev sta prendendo sempre più piede, mettendo in difficoltà Poroshenko, che aveva vinto le presidenziali anche grazie alla dote moderata del partito centrista dell’ex pugile Vitali Klitschko.

Si dice tra l’altro che Kolomoisky, che ha finanziato una delle milizie di volontari attivi sul fronte dell’est, il Dnipro, stia pensando di battezzare una proprio formazione politica – c’è nell’aria odore di voto anticipato – infarcita di veterani del fronte, piuttosto irrequieti e vogliosi di potere. Il segnale arrivato in questi giorni da Pravyi Sektor, formazione radicale decisiva sulla Maidan e attiva al fronte, indicherebbe proprio questo. Il gruppo, protestando contro una serie di azioni legali intraprese nei confronti di qualche suo membro, ha minacciato di marciare su Kiev.

La cosa è stata poi ritirata, ma ha rivelato che gli ultranazionalisti restano difficilmente gestibili. Nel frattempo il Partito radicale di Oleg Lyaschko, altro interprete del nazionalismo, nonché promotore di un’ulteriore milizia impegnata sul fronte dell’est, il battaglione Azov, sta salendo nei sondaggi.

C’è da presumere che l’ascesa dei radicali sia uno dei motivi che hanno indotto Poroshenko a mettere il sigillo su leggi piuttosto discutibili. Il Partito comunista è stato messo al bando. Le tv russe non possono più trasmettere. Sono state varate restrizioni nei confronti di libri stampati a Mosca. Matthew Kupfer, sul Moscow Times, è stato molto chiaro. Questi misure – ha scritto – sono anche comprensibili, ma il modo perentorio in cui sono state applicate, mina le credenziali democratiche delle istituzioni. Putin non aspettava altro.