Cena indigesta, ieri sera a Bruxelles, per il tredicesimo Consiglio europeo dell’anno, che chiude un 2015 particolarmente faticoso e difficile per l’Unione europea, tra Grecia, Ucraina, terrorismo e rifugiati: nel menu dei 28, le rivendicazioni di David Cameron per evitare un Brexit. Il primo ministro britannico è sbarcato a Bruxelles “pronto a battersi” e minaccia, in caso di rifiuto dei partner, di fare campagna a favore dell’uscita di Londra dalla Ue in occasione del referendum sull’appartenenza all’Unione che ha promesso di indire entro il 2017 e che potrebbe aver luogo già nel 2016. Adesso è il momento della drammatizzazione delle posizioni, la risposta del Consiglio Ue alle richieste di Cameron arriverà solo al prossimo vertice, a febbraio. Per Cameron è la prima mezza sconfitta, perché avrebbe voluto delle conclusioni entro fine 2015.

Per la Ue, già in gravi difficoltà su vari fronti, un Brexit aprirebbe una crisi enorme, più grande di quella della minaccia di Grexit (uscita della Grecia) dei mesi scorsi. Cameron, che è messo sotto pressione dagli euroscettici, ha quattro richieste: chiede alla Ue di impegnarsi a favore di una maggiore competitività, vuole l’Europa dell’energia, punta a una diversa “governance” tra eurozona e paesi non euro e, infine, vuole frenare l’immigrazione europea, imponendo un periodo di almeno 4 anni di residenza prima di poter accedere al welfare. Una maggiore competitività per Londra comincia con una riduzione delle regolamentazioni per le imprese e con il completamento del mercato unico, in particolare per quello che riguarda la libera circolazione dei capitali. Cameron chiede che l’integrazione della zona euro non vada a detrimento del mercato unico. Vuole il riconoscimento esplicito che la Ue “ha più di una moneta”, e che l’obiettivo non è di integrare tutti nell’euro. Insiste che venga scritto nero su bianco che i contribuenti dei paesi non-euro non verranno “mai” sollecitati per operazioni legate alla zona euro, ma che al tempo stesso questi stati possano intervenire in queste decisioni. Cameron vuole che venga soppressa dal Preambolo dei Trattati la frase che indica che lo scopo della costruzione europea è di “creare un’unione sempre più stretta tra i popoli d’Europa”. E soprattutto, in questo periodo di crisi migratorie, Londra vorrebbe escludere i cittadini della Ue che risiedono in Gran Bretagna dai vantaggi del welfare britannico, per almeno 4 anni. Questo è il punto più controverso, perché contraddice la “libera circolazione”, uno dei pilastri della costruzione europea. L’obiettivo è evitare il “turismo sociale”, di cui sono sospettati soprattutto i cittadini dell’est, Polonia in testa (850mila polacchi risiedono in Gran Bretagna). Cameron si è recato a Varsavia qualche giorno fa, e l’incontro con la prima ministra Beata Szydlo è stato molto teso. Ieri, il presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, ha sottolineato che alcune richieste britanniche “sembrano inaccettabili”. Angela Merkel ha ricordato che “vogliamo da un lato arrivare a un accordo perché il governo britannico possa fare campagna con successo per mantenere il paese nella Ue al referendum, ma dall’altro non rimettiamo in questione le acquisizioni fondamentali di integrazione europea”. François Hollande ha sottolineato che “non si cambiano i principi”.

Il referendum sull’appartenenza alla Ue è l’ultimo atto della storia dei rapporti ambigui che Londra intrattiene con Bruxelles, fin dal ’73, anno di adesione. Nel ’75 c’è stato un primo referendum, indetto dal governo laburista, che si è concluso con il 67% a favore dell’adesione alla Ue, ma con delle concessioni sul budget. Poi, Margaret Thatcher ottiene nell’84 il “rebate”, uno sconto sui contributi britannici al budget Ue e in seguito arrivano gli “opt out”, le deroghe: Londra resta fuori dall’euro e da Schengen, su immigrazione, asilo e sicurezza ha diritto di inventario, è fuori dalla Pesc, puo’ bloccare la regolamentazione bancaria della zona euro se ritiene che danneggi gli interessi della City. Ma ora è proprio la City ad essere la più preoccupata per un’eventuale Brexit, perché Londra rischia di perdere la preminenza finanziaria e molti posti di lavoro.