Il pullman che conduce all’aeroporto di Nizza è composto da anomala popolazione: due italiani molto esuberanti stanno per perdere l’aereo e straparlano; due eleganti signore francesi confrontano con frasi forbite le loro impressioni dei film visti (le stesse che, salendo, avevano diffidato del gentile giornalista straniero che offriva loro due biglietti gratis); il mio favoloso compagno di poltrona, un arabo strabordante – maglietta ufficiale del festival, tutto d’oro orologio catena al collo bracciali – russa sin dal primo rombo di motore a bocca aperta con la capa spelata appoggiata al finestrino: com’è calda la sua espansa coscia appoggiata alla mia!

A pochi metri dalla partenza, al primo semaforo, una ragazza si affaccia disperata al finestrino del conducente dicendo di aver perso, nel viaggio precedente, la sacchetta sottile porta soldi e documenti, gli dice il posto esatto dove era seduta e l’autista gliela ritrova. Qualcuno dalle ultime fila gli grida un «bravo!» (con pronuncia francese). Mezzo rintronata chiudo gli occhi e mi tornano in mente immagini che pensavo dimenticate… La corsa in macchina di Antoine e Louis, fratelli ritrovati, uno perché ha deciso di ritornare, l’altro che invece ha subito il ritorno: finalmente fuori di casa, finalmente solo vento, finalmente senza parole. La fuggevole apparizione, dopo la doccia, di un fiero torse nu (come i brandelli di ostaggi dipinti da Jean Fautrier, maestro dell’informale, negli anni Quaranta) di Clara-Sonia, scavato da una mastectomia.

L’accasciarsi su se stessa di Rachel, trafitta da un attacco di vergogna, dopo l’abbuffata di fagioli a mano aperta nel barattolo di latta al «food bank». La festa à poile inventata per caso da Inès dopo essersi incastrata in un vestito elegante troppo stretto (scena cult che entra a tuffo nella storia del cinema). Thérèse, ottantenne malata terminale, che parla con la nipote adolescente di quando, lasciando il marito dopo vent’anni di matrimonio, abbracciò insieme al femminismo l’omosessualità («come si poteva disprezzare l’uomo e poi godere tra le sue braccia?»). La malinconia di Ryota nel chiedere all’ex moglie Kyoko se ha già consumato con il nuovo fidanzato e il dolore fisico, riflesso nei suoi occhi, nel sentirsi rispondere di sì.

La pornosoggettiva femminile di un cunnillingus nella Corea degli anni Trenta. La purezza con cui Pericle abborda la cameriera della panetteria con l’offerta di un caffè promettendole che, dopo averlo bevuto, si innamorerà di lui tramite un incantesimo. Una frenata mi riporta alla realtà. Un cartello recita «Bouchon ralentissez»: tappo per dire ingorgo, adoro questa lingua musicale. Arriviamo. Nel bagno dell’aeroporto di Nice Côte d’Azur una tipa nella toilette accanto alla mia parla con tono alterato al telefono, usando un cesso pubblico come fosse casa sua: l’unica spiegazione che mi do è che stia discutendo con l’amante mentre, seduto fuori nella sala d’attesa, si trovi il marito con esasperanti chiassosi figlioli.

Esco all’aria aperta, fuori dal terminal 2, per fumare una sigaretta di consolazione e incontro un regista italiano che ho conosciuto un paio di mesi fa su un micro terrazzino ad una festa affollata e gli faccio i miei sinceri complimenti per il suo film visto ieri: conosco il direttore della fotografia di cui ho apprezzato molto il lavoro, ne parliamo qualche momento. A breve lo raggiunge un noto attore giovane dalla bellezza chiacchierata, mi allontano per non imbarazzarlo fissandolo. Torno a fumare con la mia amica ma, quando si imbarcano (loro volo Alitalia, noi Easyjet), passandoci davanti, l’idolo delle teenager (e non solo), per educazione immagino, da sotto gli occhiali scuri mi saluta. Ciao. Quattro lettere impreviste che mi fanno volare un po’ più serena. Grazie, gli rispondo da qui.