Uomini con le mani davanti la faccia, a nascondere il viso, in una negazione dello sguardo. Fu questo il biglietto da visita di Sigmar Polke quando nel 1986 venne invitato a rappresentare la Germania alla Biennale di Venezia (padiglione che gli valse il Leone d’oro e che era intitolato ai procedimenti alchemici). Lo sfondo nero era iridiscente e cambiava tonalità a seconda del variare della luce e della temperatura del giorno. Fedele all’idea che un quadro è sempre un organismo vivente, Polke sperimentò infatti i materiali più disparati – dalla gomma arabica ai colori idrosensibili fino al bromuro d’argento per simulare il procedimento fotografico o, ancora, resine e sostanze venefiche. Il risultato è un precipitare di immagini – in un accostamento paratattico – che prelevano pezzi di realtà (dai giornali, dalla politica, dall’arte stessa) per subire una metamorfosi straniante che è prima di tutto fisica, poi psichica. Per porsi di fronte a un dipinto di Polke, bisogna avere del tempo a disposizione: è come una proiezione di un film dove oggetti e soggetti apparentemente lontani anni luce si avvicinano creando sinergie inedite. A volte, provocano cortocircuiti da allucinazione, come quell’Alice in Wonderland che non disdegna un rimando figurativo all’Lsd, ai funghi visionari e alle loro vertiginose mescolanze di sequenze.

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Trent’anni dopo il successo alla Biennale di Sigmar Polke (nasce in Slesia nel 1941, muore a Colonia nel 2010), l’artista torna in Laguna con la grande retrospettiva ospitata da Palazzo Grassi (a cura di Elena Geuna e Guy Tosatto, fino al 6 novembre, catalogo Marsilio) con quel caratteristico «realismo sintetico» – lui, facendo il verso a quello socialista, lo chiamava «realismo capitalista» – che si dipana in tutto il suo doppio senso: il riassunto di fatti e sensazioni in un cocktail di frammenti e l’artificio puro, l’esercizio pirotecnico dell’arte, che per certi versi approda al pop e per altri lo distrugge.

Corrosivo, radicale, Polke ha nutrito le sue radici alla scuola di Düsseldorf, che ha frequentato dal 1961, formando poi un sodalizio con il più anziano Gehrard Richter, condividendo il disgusto per la scena pubblica, preferendo la solitudine alla mondanità e sperimentando in modo non addomesticato la tecnica rivelatrice del blow up, ingrandimenti dalla stampa che rivelano particolari invisibili e producono una narrazione politica del mondo contemporaneo (nella serie Hunting Tower mostra i punti di osservazione lungo il muro di Berlino, o anche dei campi di concentramento; in Flüchtende del 1992 porta alla ribalta la disperazione fuggitiva dei profughi). Il caos fertilissimo della sua imaginerie, impastato secondo i procedimenti alchemici di polveri e gesti rituali, veniva poi riportato su supporti spesso non canonici, come canovacci e tele trasparenti. E, come in una lanterna magica, a Palazzo Grassi scorre davanti agli occhi del visitatore la ridda di presenze sfrenate, in una mutevolezza di illusioni ottiche e percettive, la volatilità degli elementi scalza la solidità della «cronaca».

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Ad accompagnare l’avvio di stagione espositiva a Venezia, c’è anche l’altro tempio Pinault, Punta della Dogana con la mostra Accrochage, a cura di Caroline Bourgeois. Guidata dall’idea di divulgare la collezione del museo, ha approntato una rassegna che riconduce l’arte al suo grado zero di linguaggio. Gesti e pensieri minimali rubano la scena allora alle installazioni spettacolari a cui siamo abituati. Quasi un brusìo di opere che si rispondono l’un l’altra, in un monacale bianco e nero. Una pausa di silenzio (se si esclude il pianoforte pronto al suono di Philippe Parreno) nel bombardamento di informazioni

La parola «accrochage» è volutamente neutrale: invita a una passeggiata da flâneur fra alcune opere mai esposte prima, inseguendo una serie di apparizioni: la bambina fantasma alle prese con l’incomprensibilità della natura umana di Pierre Huygue, i wall drawing di Sol Lewitt, i materassi bianchi sospesi alle pareti di Calzolari, gli schermi bianchi di un cinema e di una storia ancora tutta da raccontare di Fabio Mauri, l’anonima tautologia del bicchiere dipinto in serie da Peter Dreher.

Ci sono anche spazi illusori ( la facciata della baita di Steinbach che consiglia un passaggio dall’altra parte), linee, confini da superare, micro-oggetti, piccoli reperti seminati lungo il percorso della mostra. E poi viene incontro lo Young Man di Charles Ray, quasi il testimone malinconico di un’assenza, quella del bianchissimo Ragazzo con la rana che è stato rimosso da Punta della Dogana per riportare il paesaggio allo status quo, con un orribile (e non originale) lampione verde al posto della statua. L’irruzione della Storia nella sua versione onirica è affidata a Goshka Macuga: un’interferenza potente nel livello low delle tensioni proposte.