L’immagine che meglio si addice alla storia dell’Intelligenza artificiale è quella delle montagne russe. Salite percorse lentamente, con la sensazione di tornare rovinosamente al punto di partenza e poi la vertigine entusiasmante di scendere a precipizio verso il traguardo. È dagli anni Cinquanta del Novecento che l’andamento alterni grandi momenti di euforia a rallentamenti prossimi al blocco totale. All’annuncio della produzione di macchine pensanti seguiva la smentita data dalla realtà. Sta di fatto che l’Intelligenza artificiale ha compiuto grandi passi in avanti, ma computer capaci di apprendere e mostrare qualcosa dell’intelligenza umana non ce sono in giro.

Eppure la discussione su quale possa essere la strada per una macchina intelligente prosegue, nonostante ci siano decani dell’intelligenza artificiale che da tempo segnalino l’impossibilità di costruire macchine intelligenti. Certo i computer svolgono una quantità di calcoli a velocità sorprendente e possono gestire una mole di dati che un esercito di umani metterebbe decenni per elaborarli, mentre a un computer portatile serve una manciata di secondi per fare la stessa operazione. Ci sono anche computer che possono diagnosticare malattie e indicare terapie più accurate di tanti medici, ma l’intelligenza è cosa che ancora sfugge a quell’ammasso di circuiti e dispositivi digitali che si è soliti chiamare computer. E che possono coordinare robot che svolgono lavori molto più precisi di quanto possa fare un umano.

Nuove conoscenze

Negli ultimi anni, però, l’intelligenza artificiale sembra che stia salendo una delle ripide salite delle montagne russe. Le tendenze presenti sono ampiamente documentate nel godibile saggio di Pedro Domingos L’Algoritmo definitivo (Bollati Boringhieri, pp. 353, euro 35). La tesi dell’autore è semplice da riassumere: i computer continueranno a vedere crescere, più o meno vorticosamente, la loro capacità di calcolo. Ciò che manca è trovare il modo (un algoritmo) affinché le macchine conquistino l’abilità di apprendere da sole per produrre nuova conoscenza a partire dalla montagna di dati che sono stati e sono quotidianamente raccolti. La ricerca scientifica non si deve però concentrare sull’hardware, bensì sul software, cioè sugli algoritmi e programmi informatici perché le frontiere dell’automazione non riguardano più la riproduzione meccanicistica del cervello – come funzionano le reti neuronali per riprodurle con una macchina – bensì svelano l’arcano dei processi cognitivi, tra i quali il più immediato è l’apprendimento.

Per quanto riguarda la società, significa che l’automazione del lavoro manuale è diventata marginale rispetto a quella dei processi cognitivi. Robot che possono essere precisi più di un umano ce ne sono, così come macchine che possono modificare il loro funzionamento rispetto ad alcuni imprevisti. Alcuni imprevisti, sia chiaro. Non li riescono a fronteggiare tutti, nel bene e nel male, come invece è capace l’animale umano.
Pedro Domingos non è certo interessato alla natura del capitalismo attuale e futuro. Il suo proposito è trovare la strada per trovare l’algoritmo definitivo. E in questo presenta una rassegna esauriente delle diverse tendenze e linee di ricerca presenti. Un obiettivo che sintetizza nell’espressione machine learning, la macchina che apprende per produrre nuova conoscenza: per la cura del cancro, produrre nuovi farmaci finalizzati alla terapia di malattie debilitanti, svolgere previsioni economiche, gestire processi gestionali complessi – la complessità è il mostro da domare, afferma più volte Domingos. In altri termini, l’algoritmo definitivo ha l’umano sullo sfondo. Non la «nuda vita», bensì proprio le caratteristiche fondamentali della specie umana. I processi cognitivi, il linguaggio, le capacità di astrazioni.

La posta in gioco

Un marxista eterodosso affermerebbe che l’algoritmo definitivo serve a automatizzare l’attività cognitiva sans phrase. Di esempi che ne sono a mucchi. Dei sistemi esperti per la diagnosi delle malattie molto si sa, dei programmi per fare operazioni in borsa è costellata la crisi del capitalismo contemporaneo, lo sviluppo – attraverso sofisticate elaborazioni delle informazioni – dei Big Data è materia dell’attualità giornalistica, con le declamazioni entusiaste sulle fortune di imprese – Amazon, Google, Facebook, solo per citare le più note – che fanno profitti proprio sulla gestione delle informazioni individuali, facendo carta straccia della privacy e della democrazia.
Pedro Domingos sostiene che la strada verso l’algoritmo definitivo sia lunga e piena di insidie, ma dice anche che ormai è stata presa e difficilmente si potrà interrompere il cammino. Il suo saggio è una buona introduzione agli sforzi in atto sulla formalizzazione matematica dell’attività cognitiva. La posta in gioco, infatti, è la produzione di nuova conoscenza a ritmi più veloci di quelli che può esprimere il cervello umano, anche se diventa collettivo. Perché è nella conoscenza che l’economia prospera. L’algoritmo definitivo è lo strumento per conseguire questo vantaggio competitivo.

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L’autore concede poco alle cosiddette scienze sociali, né è interessato ai rapporti sociali. Stabilisce nessi, analogie tra lo sviluppo della machine learning con la mappatura del genoma umano. Entrambi servono a svelare il mistero della natura umana, in una prospettiva deterministica e naturalistica, ma entrambi servono per trovare il passaggio per riprodurre l’attività cognitiva. Il futuro del mondo, come recita il sottotitolo, è proprio nella macchina che impara da sola. Per questo vale la pena ricercare e studiare. E investire.
L’autore non si concede nessuna previsione. Non è cioè interessato a capire come sarà il mondo, quali le relazioni sociali che prenderanno forma. Dalla lettura del suo libro esce confermata la tesi che il lavoro manuale diventa marginale, un residuo rispetto la produzione della ricchezza. Per Domingos è irrilevante il fatto che quel che rimane del lavoro manuale sia ripetitivo, alienante e poco remunerato. Né che gran parte del lavoro intellettuale (è una semplificazione, va da sé) sia sempre più standardizzato, omologato, mortificando creatività e innovazione. Anche in questo caso in diminuzione e sempre più poco remunerato, cioè pagato.

Ci sarà un tempo nel quale l’idea della proletarizzazione crescente, descritta da Marx, sarà sottratta a una visione economicistica, come è stato per gran parte del Novecento e ricondotta alla più realistica tendenza a trasformare ogni funzione umana ad attività produttiva che risponda alle bronzee leggi del lavoro salariato, anche se formalmente i rapporti di lavoro non sono quelli codificati durante il lungo Novecento.

 

La cultura è un’eccedenza

L’aumento della disoccupazione, ormai strutturale, non riguarda infatti solo il lavoro manuale, ma anche quello intellettuale. Chi è stato cacciato, perché in esubero, sono stati impiegati, softweristi, operatori finanziari. Per loro, come a suo tempo per gli operai, l’angusto e feroce futuro di precarietà e impoverimento. Anche le recenti controriforme che coinvolgono le università di molti paesi europei servono a ridimensionare la «materia grigia» in circolazione. L’acculturazione, l’accesso alla formazione universitaria, ritenuto diritto universale, è una eccedenza di cui il capitalismo non ha bisogno. O meglio, va governata, cioè resa risorsa scarsa attraverso le barriere d’ingresso all’università, le norme internazionali sulla proprietà intellettuali, le riforme del mercato del lavoro.

Anche in questo caso è introdotta una forte gerarchia, una stratificazione del lavoro vivo (intellettuale, sempre per semplificare) funzionale alle necessità produttive. Vanno cioè prodotti bacini di lavoro vivo dove attingere. Per la produzione di nuova conoscenza serve un algoritmo definitivo sul quale investire. Con la leggerezza di chi è appassionato al suo lavoro, Pedro Dimingos sorvola su tutto ciò. Per questo ricercatore di origine portoghese, la machine learning è l’obiettivo.

Certamente, poi, sa anche che la proprietà intellettuale può essere un ostacolo. E solo su questo ha un sussulto «politico», perché invita ad allentare la maglie sulla circolazione del sapere e della conoscenza, così come si ritrae quasi inorridito dalle tecniche di data mining, cioè l’estrazione di dati pregiati dalle attività che si compiono in Rete, in quella infrastruttura universale della comunicazione. Ma sono solo sussulti. Niente a che vedere con la passione che lo anima nel cercare la scrittura dell’algoritmo definitivo.