«Ci troviamo in tempi agitati – noi stessi lo siamo troppo – per poter valutare il significato delle opere che i pionieri dei tempi nuovi hanno creato, Noi cerchiamo solo la frontiera, appena segnata, fra l’ieri e il domani. La linea e il confine che vediamo si avvolgono di frequente in misteriose volute, all’indietro nel passato e nell’oblio, e quindi avanti in lontananze che si sottraggono al nostro sguardo torbido».

In una lettera alla moglie del febbraio 1915 Franz Marc si diceva contento che la stesura dei Cento aforismi, la celebre raccolta di suoi pensieri maturati al fronte, avesse avuto una gestazione più rapida del previsto. Sono tempi duri, la natura «è infelice, un’amara prigione dello spirito». La guerra non permette di diradare le nebbie, chiude fuori dall’orizzonte ogni via di fuga e Marc stesso, arruolatosi volontario, pagherà con la vita quel suo catapultarsi incontro ai «tempi nuovi» (morirà nel 1916 a Verdun, colpito da schegge di granata, proprio quando stava per tornare a casa, riformato, per meriti culturali). Ma la rivoluzione artistica, di cui era stato uno dei protagonisti più illustri insieme a Wassily Kandinsky, si era già compiuta. E se l’Europa è alla catastrofe, attraversata dalle scosse letali della violenza, l’unico ponte da poter gettare verso il futuro è rappresentato dall’arte, da quella sua capacità di andare oltre l’apparenza per coltivare la «seconda vista».

Nasce da qui, infatti, quel Cavaliere Azzurro (Der Blaue Reiter) che prese vita prima che la scena bellica conquistasse il mondo circostante e che può leggersi, oggi, come una testimonianza filosofica del superamento del presente (così appesantito di cattivi presagi) in direzione dello spirito. «Nessun mistico – scrive ancora Marc – nelle sue ore più estatiche, nelle quali vedeva il cielo aperto, ha raggiunto la perfetta astrazione del pensatore moderno, la trasparenza della sua visione». E poi, nell’aforisma numero 46, il manifesto della poetica perseguita dagli artisti espressionisti del Cavaliere Azzurro: «(…) L’epoca dello spirituale, come la chiama Kandinsky, creerà le sue forme etiche e artistiche, a partire dalle leggi delle scienze esatte».

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Una mostra presso la Fondazione Beyeler di Riehen (Basilea) ripercorre un capitolo cruciale della storia culturale tedesca attraverso circa settanta opere e la ricostruzione di una stanza dell’Almanacco, che raccoglie gli oggetti «stimolatori», quelli che diedero le connessioni giuste per imprimere la svolta decisiva all’arte del XX secolo. Accadde tutto in una manciata di anni (dal 1908 al 1912), quando quel leggendario libro venne pubblicato per la prima volta, a Monaco. Doveva essere il capostipite di una lunga serie, ma rimase l’unico, pur se rieditato qualche tempo dopo, nel 1914.

L’esposizione, visitabile fino al 22 gennaio (quando lascerà il posto ai riflessi luminosi intrappolati nei dipinti di Claude Monet), riporta in Svizzera i protagonisti di quel rovesciamento radicale del linguaggio, dopo trent’anni di assenza dai musei elvetici. Forte di un cospicuo numero di Kandinsky provenienti dalla stessa collezione Beyeler, la rassegna conta su alcuni prestiti eccezionali, come quei Grandi cavalli azzurri di Marc (1911) che giungono in Europa da Minneapolis (dal 2000 l’opera non si era più vista in giro), o la Passeggiata nel bosco di August Macke che uscì allo scoperto per l’ultima volta nel 1973. Inoltre, viene proposta la compresenza delle due opere che si scambiarono in dono Kandinsky e Marc: Improvvisazione 12 (del primo artista, è custodito a Monaco ed è un dipinto restìo a viaggiare fin dal 1958) e poi Il sogno (del secondo), quella sorta di Eden raffigurato già in procinto di accogliere i suoi «demoni».

La mostra procede dal 1908, gli anni di Murnau, quando Gabriele Münter (di cui alla Fondazione Beyeler vengono presentati diversi quadri, tra i quali il bellissimo Landscape with Cabin at Sunset) e Kandinsky scelsero la campagna al posto della città, riunendosi in Alta Baviera con altri «illuminati». La parola d’ordine era semplicità e ritorno alla natura, consapevoli però che ogni paesaggio possiede un baluginìo interiore, un’essenza da cogliere che non ha nulla da spartire con la mera apparenza. A quindici chilometri da Murnau, precisamente a Sindelsdolf, nel 1910 erano arrivati anche Franz Marc e la sua compagna Maria Franck.

Fu così, da una comunanza di idee e anche di vita quotidiana che nacque Der Blaue Reiter: non un movimento né un manifesto tantomeno una «scuola», ma una consonanza spirituale tra un gruppo di artisti – ognuno con la propria spiccata individualità – che si dedicavano a illustrare una sintesi di forme, colori e musica, abbandonando via via la struttura visibile della realtà. Quel «cavaliere azzurro» (in omaggio alle predilezioni dei due fondatori, Kandinsky per il colore blu e Marc per i cavalli) vide la luce in casa, a Sindelsdolf, davanti a un caffè fumante. E come si conviene a un cavaliere che si rispetti, l’identikit delinea un carattere inquieto: cerca corrispondenze, insegue ritmi segreti, ama l’arte popolare e celebra la sinestesia come tensione verso un altro mondo possibile.

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Per dare linfa vitale alla nuova filosofia esistenziale e artistica era necessario uno strumento divulgativo, che la alimentasse e insieme la sparpagliasse come polverina magina nelle menti «moderne» dell’epoca. Niente di meglio di un Almanacco, allora, che dimostrasse pagina dopo pagina (con immagini giustapposte e saggi critici) cosa volessero dire quei pittori stravaganti.

Alla Beyeler si può carpire l’anima di quel libro in una stanza dove sono esposti molti degli oggetti che ispirarono Kandinsky e gli altri: lunghe ricerche per musei etnografici li hanno riportati alla loro funzione di «attrattori di idee». «Nel nostro volume – scriveva Kandinsky – metteremo un lavoro egiziano accanto a un disegno del piccolo Zeh (figlio dell’architetto August Zeh, ndr), un’opera cinese vicino a Rousseau, una stampa popolare con Picasso a fronte…Il libro potrebbe anche chiamarsi La Catena…».
Con l’Almanacco si valicarono i confini – anche geografici e temporali – tra le varie espressioni della cultura. Musica, arte, teatro e letteratura testimoniano radici comuni, sono unite da «una profetica intelligenza»: così la chiamava Marc.

Soprattutto, si sviluppò un sistema comparativo di immaginari ancestrali e collettivi, attingendo a fonti le più disparate, dai disegni dei bambini agli ex voto fino alle sculture primitive. Le pagine funzionavano come dispositivi interattivi per il lettore, aprivano squarci inusuali, mescolavano sapienza antropologica a quella filosofica e storica. Le analogie proposte in totale libertà non sono mai convenzionali. Basti pensare a quel Paul Gachet ritratto da Van Gogh messo a paragone con una stampa giapponese uscita dalla collezione privata di Franz Marc. L’attenzione non è rivolta allo stile sfoggiato, ma alle smorfie del viso. In fondo, «sappiamo che l’idea originaria di ciò che sentiamo esiste prima di noi».