Tra gli esperimenti realizzati da Samantha Cristoforetti sulla Stazione Spaziale Internazionale c’era anche il caffè. L’astronauta, infatti, in vista della lunga permanenza sulla stazione aveva portato con sé anche una sofisticata (e griffata) macchina in grado di preparare espressi e tisane in assenza di gravità. L’elettrodomestico sarà apprezzato anche dai turisti spaziali che in un prossimo futuro sosterrano i bilanci traballanti delle agenzie spaziali con i loro costosissimi biglietti di viaggio. Un domani, la Stazione orbitante con i letti a castello, le chat su Skype, i turisti in ciabatte e ora anche il distributore del caffè somiglierà a quei lussuosi ostelli scandinavi, puliti ma noiosetti?

Improbabile: malgrado sembri facile come bere un caffè, una missione spaziale comporta tuttora una notevole dose di rischio e gli imprevisti non mancano mai. In realtà, dal primo viaggio spaziale di Gagarin (1961) ci sono stati solo quattro incidenti mortali, con diciotto vittime in tutto su oltre trecento voli. Ma anche nelle missioni finite bene, spesso l’incidente tragico è stato evitato in extremis per la fortuna o l’incredibile abilità degli astronauti.

Alcune di queste avventure sono divenute celebre. Sulla missione Apollo 13 del 1970, destinata a giungere sulla Luna ma costretta a rientrare per l’esplosione di un serbatoio hanno fatto anche un film. I tre astronauti non drammatizzarono troppo («Houston, abbiamo avuto un problema», disse in realtà il comandante Lovell, a cose evidentemente già avvenute). Ma dovettero schiacciarsi per quattro giorni nel minuscolo modulo lunare e per ovviare alla mancanza d’ossigeno costruirono un filtro per l’anidride carbonica con il materiale a disposizione sulla navicella. Seguiti in mondivisione, riuscirono a tornare a casa e Lovell si prese anche la soddisfazione di una comparsata nel film sulla sua stessa vicenda.

Défaillance da dimenticare
Episodi del genere sono sempre stati abbastanza frequenti, anche se inizialmente non hanno goduto di grande pubblicità: la Guerra Fredda sconsigliava di esibire segni di debolezza soprattutto nell’Unione Sovietica, i cui cosmonauti nei primi tempi battevano regolarmente i colleghi americani.
Più che la perizia degli ingegneri, però, l’arma decisiva dei russi era la pellaccia dei loro astronauti. Uno dei più spericolati doveva essere Alexei Leonov, l’uomo che per primo ha fluttuato nello spazio fuori da un veicolo in orbita. Fu scelto proprio perché era un irregolare: all’eccezionale preparazione fisica e mentale, affiancava il gusto per la pittura e la bella vita.

Così nel marzo del 1965, tre mesi prima degli americani e mentre in Italia si abroga la messa in latino, fu lui il primo uomo abbastanza pazzo da galleggiare intorno alla Terra, al costo di un’avventura mozzafiato e un po’ comica. Quando Leonov uscì dalla navicella Voskhod, tutto sembrò filare liscio.

Per alcuni minuti Leonov si godette il panorama, ma poi si accorse che la sua tuta si era gonfiata ed era diventata troppo larga per passare dal portellone di rientro della navicella. Riuscì a depressurizzare la tuta espellendo l’ossigeno al suo interno – «creare un buco nella tuta è davvero l’ultima carta da giocarsi», dirà l’astronauta Luca Parmitano che, quarant’anni dopo si troverà in una situazione simile. Leonov si salvò. Rientrò nel veicolo dopo dodici minuti di «passeggiata», un principio di embolia, una perdita di peso di sei chilogrammi ma con la pasticca di cianuro ancora intatta.

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Ingolfati come omini Michelin, Leonov e il compagno Belyayev persero il controllo della navicella al rientro, che atterrò quattrocento km più lontano del previsto, nelle foreste degli Urali. Quando aprirono il portellone, ad attenderli trovarono lupi e orsi affamati che li costrinsero ad aspettare nella capsula i soccorsi: erano pronti a difendersi con la pistola di bordo (sulla Voskhod c’era di tutto, a parte la caffettiera). Il terzo giorno, i due raggiunsero – sci ai piedi – l’elicottero militare di soccorso. Poco o nulla trapelò nella versione ufficiale: nelle dichiarazioni dei giorni successivi, il presidente dell’Accademia Sovietica delle Scienze Mstislav Keldysh affermò che lavorare nello spazio è «facile».
Pluridecorato ma inviso ai gerarchi per qualche dichiarazione fuori controllo, Leonov schivò la morte in un’altra occasione, stavolta per puro caso. Nel 1971 doveva dirigere la missione per stabilire il record di permanenza in orbita e realizzare il primo aggancio ad una stazione spaziale orbitante. Due giorni prima del lancio, però, l’equipaggio fu sostituito in blocco per un sospetto di tubercolosi, poi rivelatosi infondato. L’equipaggio di riserva stabilì effettivamente il primato e agganciò la stazione Salyut. Ma, nel distacco dalla stazione, una delle valvole di pressurizzazione si ruppe e i tre cosmonauti rimasero rapidamente senza aria e morirono soffocati.

In orbita, ma non solo
Le missioni russe in quegli anni, dunque, finivano spesso in circostanze sorprendenti e spettacolari, pronte per un adattamento cinematografico. Nessuno ha però opzionato la storia della Soyuz 23, perfetta per un film catastrofista (ma col lieto fine). Nell’ottobre 1976, Viaceslav Zudov e Valery Rozhdestvensky partirono a bordo della navetta Soyuz 23 per un soggiorno spaziale di tre mesi ma furono costretti a tornare a Terra poche ore dopo il lancio per un malfunzionamento del sistema di «attracco» alla stazione orbitante sovietica Salyut.
L’atterraggio imprevisto avvenne di notte, durante una tempesta di neve, nella regione kazaka del lago Tengiz. Per la precisione, gli astronauti finirono proprio dentro il lago ghiacciato, perché la navetta sfondò la crosta gelata e fu tirata giù dal paracadute pieno d’acqua. La Soyuz si adagiò sul fondo del lago, per fortuna non più profondo di sei o sette metri. Tuttavia, per risparmiare l’energia delle batterie i due cosmonauti spensero le apparecchiature di bordo (tra cui il segnalatore) in attesa dei soccorsi.
L’assenza di comunicazioni e le condizioni meteorologiche, con temperature di venti gradi sottozero, rallentarono le operazioni. Una volta ancora, l’autocontrollo dei due cosmonauti, immobilizzati in una capsula spaziale sul fondo di un lago ghiacciato per oltre nove ore, li aiutò ad ottimizzare il consumo di ossigeno. E anche stavolta si dovette aspettare la glasnost per sapere come erano andate le cose davvero.

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L’acqua che uccide
Non era però tutta colpa della Guerra Fredda e della fretta di vincerla con ogni mezzo necessario. L’anno prima, nel 1975, Usa e Urss avevano organizzato la prima missione congiunta, con uno storico incontro tra gli equipaggi russi e americani a trecento chilometri di quota. Quando le porte della navetta americana e di quella russa si erano aperte, il primo a stringere la mano a Stafford era stato proprio Leonov, la cui presenza evidentemente era garanzia di suspence. Quella volta, però, le cose andarono storte ai tre astronauti americani Vance Brand, Deke Slayton e Tom Stafford.

Al rientro, Brand dimenticò di abbassare due levette e la navetta si riempì di tetraossido di azoto, un gas letale. Il sistema di stabilizzazione andò in tilt, Brand perse conoscenza e solo la prontezza di Stafford, che riuscì a mettergli la maschera d’ossigeno e a svolgere le operazioni di atterraggio manuale da solo, portò in salvo l’equipaggio intossicato. Almeno nello spazio, dunque, la Guerra Fredda stava finendo. Da allora le missioni spaziali hanno coinvolto un numero di Paesi sempre più ampio e le ragioni della competizione militare sono venute meno. Nemmeno la cooperazione e robotizzazione, tuttavia, proteggono al 100%.

L’ultimo a dimostrare che coraggio e sangue freddo contano più dei computer è stato proprio un italiano, Luca Parmitano. Anche a lui avrebbero fatto comodo i consigli di Leonov, avendo vissuto una situazione analoga a quella del 1965. Nel 2013, durante una passeggiata spaziale fuori dalla stazione spaziale internazionale, infatti, il casco di Parmitano comincia a riempirsi d’acqua. Inizialmente l’astronauta pensa che sia sudore e non si preoccupa. Invece, si tratta del sistema di raffreddamento della sua tuta, che si è rotto. È un incidente che può capitare, ma gli ingegneri dell’Esa non hanno previsto correttamente il comportamento dell’acqua in quelle particolari condizioni. Senza gravità, infatti, il liquido tende ad attaccarsi alla testa dell’astronauta.

In pochi minuti, dunque, l’acqua riempie gli occhi, le orecchie, il naso di Parmitano, isolandolo dalle comunicazioni con gli altri astronauti. Parmitano domina il panico: a occhi chiusi e semi-affogato, i compagni riescono a riportarlo al sicuro nella navetta e lui può raccontare la vicenda sul suo blog direttamente dalla ISS: «lo spazio è una frontiera dura e inospitale: siamo esploratori e non coloni». I futuri turisti dello spazio faranno bene a ricordarselo e a prepararsi ai cambi di programma. Più che il caffè, che rende nervosi, in valigia è meglio portarsi qualche bustina di rilassante valeriana.
4 – continua