Narrare attraverso l’infanzia è come ridurre il mondo all’assurdo: non serve a spiegare il perché delle cose, ma a mostrarne l’essenza mettendola di fronte all’impossibile, all’immagine paradossale in cui l’esperienza può riflettersi. Non si tratta solo e tanto di straniamento. In letteratura, la funzione dello straniamento è di favorire un incremento conoscitivo; al contrario, narrare attraverso l’infanzia produce estraniazione, disorientamento cognitivo. La costruzione del racconto si basa proprio su quel disorientamento: gli elementi della storia – personaggi, ambienti, cronologia – vengono disaggregati finché nel mondo narrato non resta più alcun décor. Ciò che è assente, o rarefatto all’estremo, non è perciò la realtà ma è l’effetto di reale, cioè quell’insieme di figure e situazioni che trattengono il racconto sul terreno della realtà.

Libero da quei pesi, il racconto si eleva fino al punto da cui, guardando in basso, i luoghi appaiono come perimetri indistinti e le persone sono forme anonime. È a quel punto che il disorientamento si fa trama, diventa cioè una procedura narrativa che consiste nel combinare gli elementi del racconto riconfigurandoli, appunto, per la via dell’assurdo. L’esempio forse più alto ed emblematico di questa forma di narrazione nella letteratura contemporanea è offerto dalla Trilogia della città di K. di Ágota Kristóf, in cui la prospettiva iniziale, condivisa dai due gemelli protagonisti, viene successivamente alterata, contraddetta. Ma una tensione all’assurdo, al fantastico come riduzione del racconto al fantasma dei suoi elementi, percorre anche la narrativa italiana di fine Novecento, da Calvino a Tabucchi.

L’ultimo dei dieci inizi di Se una notte d’inverno un viaggiatore, «Quale storia laggiù attende la fine?», esprime in forma letterale questa istanza di sottrazione; Calvino vi immagina infatti un mondo cancellato, pezzo dopo pezzo, dove rimarrà solo lo spazio in cui il protagonista potrà incontrare la donna.

L’atmosfera e la costruzione del racconto nella narrativa di Andrea Bajani sono accostabili a questi precedenti. Se Bajani non si spinge né verso il fantastico né verso l’apocalittico, mantenendosi a distanza dalla letteratura di genere e dal fenotipo del postmoderno, nelle sue opere coltiva però un sentimento del postumo, del vuoto, che si esprime in una sorta di distopia esistenziale. È in questa dimensione che occorre leggere l’ultimo suo libro, che è appunto una narrazione attraverso l’infanzia: Andrea Bajani, Un bene al mondo (Einaudi, pp. 136, euro 16,50).

I temi del dolore e dell’assenza, della lacerazione fisica o emotiva che separa le madri e i padri dai figli, centrali nei suoi romanzi maturi (Se consideri le colpe, 2007; Ogni promessa, 2010), tornano qui in chiave estraniata. Tutto si fa più assurdo e concreto al tempo stesso, perché i sentimenti acquistano corpo. Se, come avverte il narratore all’inizio, «questa non è una favola per bambini», motivi e strutture fiabesche sono di certo presenti; si potrebbe parlare di una forma di animismo narrativo.

Ma non è inscrivendo il racconto entro un modo letterario, o collocandolo sotto un’insegna, che se ne coglierebbero le qualità e il senso rispetto all’opera complessiva di Bajani. Nell’introduzione al volume dei Racconti di John Cheever, Bajani ha osservato che scrivere significa «dare udienza ai fantasmi»; in Un bene al mondo i fantasmi escono dall’ombra, smettono di sussurrare alla coscienza per prendere posto sulla scena. Questa esplicitazione costringe Bajani a rinunciare alla prospettiva sulla Storia e sulla società, con cui reagiscono i personaggi dei suoi romanzi maggiori e che dà sostanza anche alle sue opere non fiction.

L’effetto, specialmente all’inizio, è quello di un racconto bidimensionale (un po’ come il disegno del villaggio riprodotto sulla copertina ideata da Mara Cerri), con il vantaggio della riduzione all’assurdo e il limite di una soglia raggiunta: la soglia, cioè, oltre la quale il racconto si fa (o torna a essere) allegoria, e perfino poesia. Bajani, che dalla poesia ha sempre tratto un consistente nutrimento stilistico, non è peraltro l’unico scrittore italiano che, seguendo tutt’altre traiettorie, si è avvicinato a questa soglia in opere recenti: penso per esempio al Moresco di La lucina, in cui proprio una figura di bambino esprime una condizione postuma, assoluta.
Il «bambino» di Un bene al mondo alleva «un dolore da cui non voleva mai separarsi» e che il narratore rappresenta come un animale domestico: quasi un cane fedele, che accompagna e consola il protagonista dagli assalti del violento dolore paterno e dallo sguardo vuoto di una madre che ha perso il proprio di dolore ed è perciò incapace di emozioni. Il dolore del bambino, più che sofferenza, è assenza di colore, riparo dentro «il cubo dell’infanzia», «il dado della commozione» (così nei versi di La casa di Zbigniew Herbert, citati in epigrafe). È la forma totemica assunta dal sentimento disforico in cui il bambino si sdoppia e attraverso cui si completa.

Negli stati patologici, che accompagnano spesso l’ansia per un mondo in esaurimento, a incepparsi per prima è di solito la percezione del tempo; così, dentro il perimetro in cui vivono i personaggi senza nome di Bajani, il tempo non si svolge ma si accumula: «Il tempo era soltanto una ripetizione di gesti». Questo stato si esprime attraverso una scrittura che tende a farsi rituale (poetica appunto, in grazia della sua ricorsività di fondo), anche per mezzo di accorgimenti formali, come la segmentazione in brevi paragrafi, e stilistici, come l’uso ostinato dell’imperfetto che imprigiona e isola il personaggio in un tempo abitudinario, ripetitivo: «I bambini della panchina, quando diventavano grandi, non chiamavano più. (…) Il dolore seguiva il bambino senza voltarsi, perché i bambini della panchina, quando diventavano grandi, si disinteressavano anche di lui». Ma a un certo punto il narratore fa finta di sorprenderci e, imitando l’andamento di una fiaba subito smentita, ci svela che il bambino non è più un «bambino, ma un uomo alto un metro e novanta». A guarire il «tempo ammalato», in cui sono rimasti bloccati il paese dell’infanzia, i genitori e la stessa immagine di sé che il figlio ha lasciato loro, è stata la distanza, resa possibile innanzitutto dal dialogo con «la bambina», dalle parole che il bambino le rivolge e le scrive: «Soltanto dentro quelle lettere non spedite il bambino riusciva a scappare. Dentro le lettere prendeva il dolore del padre, lo colpiva sulla testa per farsi obbedire».

D’altra parte, sono le parole scritte a lui dalla bambina che rimettono in pari il tempo della storia, con il sommario degli eventi che proprio la distanza rende più significativi: «Gli scrisse che sua madre aveva preso un’auto nuova e che era stata lei a scegliere il colore. (…) Gli scrisse che si era comprata uno zainetto rosso uguale al suo. (…) Non gli scrisse che si sentiva sola».

All’inizio del suo libro precedente, La vita non è in ordine alfabetico, Bajani ricorda le frasi di un maestro di scuola: «Con ventuno lettere (…) si può costruire e distruggere il mondo, nascere e morire, amare, soffrire». Così, anche in Un bene al mondo, racconto di sopravvivenza all’infanzia più che di iniziazione o formazione, sono le parole costruite da quelle ventuno lettere a muovere il tempo, permettere la crescita, tenere a bada un dolore che ancora aggredisce: «Per questo tutti i giorni quest’uomo si siede al tavolo, accanto alla finestra, apre un quaderno, apre una pagina nuova, e ce lo fa correre dentro».