Ci è venuto in mente proprio in questi giorni Tadeusz Konwicki scomparso pochi giorni fa, durante la visione di Exodus, per il feroce e impietoso parallelo con il Faraone di Kawalerowicz di cui lo scrittore aveva scritto la sceneggiatura, la maestosa ricostruzione che non aveva bisogno del 3D per imporsi alla memoria, il sottile gioco di potere, un film che aveva avuto non pochi problemi ad essere distibuito in occidente. Konwicki aveva scritto per Kawalerowicz anche la sceneggiatura di Madre Giovanna degli angeli del ’61 (dal romanzo di Iwaszkiewicz) premiato a Cannes, e li citiamo perché perfino i lettori italiani possono fare un po’ di mente locale su questi nomi e questi film, attraenti per il nostro pubblico soprattutto per via dell’epica, degli intrighi faraonici e degli esorcismi più che per questioni di stile.
Il ’56 per il cinema polacco fu l’anno della svolta, quando si videro più numerosi i film dall’occidente e anche quelli russi degli anni venti. Oltre al confronto con stili diversi, si cominciarono a formare i famosi gruppi di lavoro che mettevano insieme artisti e maestranze per affinità creativa e visione comune. Da quel momento in poi si assiste a una grande esplosione creativa ed emergono quei nomi che sono conosciuti perfino dal nostro pubblico: Wajda, Kawalerowicz, Munk, Has, prima che si facesse strada la nuova generazione (Polanski, Skolimowski, Zanussi). Un posto importante è occupato proprio da Tadeus Konwicki, uno scrittore che ha realizzato anche dei film, proprio nell’epoca in cui maggiormente era possibile sperimentare e che ha collaborato con i grandi registi come sceneggiatore. Nell’epoca in cui il dopoguerra è il grande tema, lui ne racconta i risvolti più intimi, più traumatici (e si può far risalire a questo l’affinità con Kawalerowicz). Non si troverà in lui il romanticismo possente di Wajda, ma lo contraddistingue la sottigliezza psicologica dei personaggi, la «semplicità» della messa in scena che ha qualcosa di anarchico, esprime un ritmo di assoluta modernità.
Abbiamo incontrato Tadeusz Konwicki nella Polonia dell’inizio anni 80 quelli dello stato di guerra, quando realizzavamo un libro dedicato ai cineasti dei paesi dell’est: «Già nel ’56, raccontava, ero capo letterario del gruppo Kadr, scrivevo sceneggiature per Kawalerowicz e ho cominciato a scrivere i miei film. Dopo il ’56 ci fu il caos. Poiché ero il capo letterario ho potuto realizzare film completamente nuovi come Ostatni dzien lata (L’ultimo giorno dell’estate). A quei tempi c’erano alcuni canoni e io cercavo di andare contro queste regole. Il cinema è molto elastico. si può fare praticamente tutto, girare con la camera a mano, usare un solo attore. Solo un pazzo negli anni ’50 poteva avere questa libertà di linguaggio e fare in modo che questo modo di girare passasse. Io mi consideravo un outsider, sono sempre stato fuori dalla corrente». Con il mio film Un giorno d’estate, diceva, è cominciato un nuovo modo di vedere il cinema, e in effetti due anni dopo lo stesso tema considerato così eccentrico fu ripreso in Hiroshima mon amour. Fare film per Konwicki è stato un rapporto episodico, ma in quegli anni il cinema polacco era fatto oltre che di solidi maestri, di sprazzi, di meteore, di vite spezzate, come quella di Zbigniew Cybulski, l’attore dei classici di Wajda che anche Konwicki ebbe come protagonista di Salto (1965), morto a nemmeno quarant’anni mentre su un set prendeva un treno al volo, a rappresentare tutte le inquietudini dei giovani della sua epoca (James Dean fu il Cybulski americano). «Non farò più dei film, disse Konwicki, mi sono stancato, ho troppi problemi. Io sono uno straniero in questo mondo di cineasti. La politica mi ha tolto la voglia di fare cinema». Per lui cinema era poesia, così amava più De Sica di De Santis, e ammmirava Bertolucci («ho visto il Conformista come se l’avesse girato a Varsavia, con il mio stesso modo di pensare»).
È stato eccentrico anche in quell’81, quando la linea era fare film politici, una vera assemblea permanente di Solidarnosc che si teneva nelle sale cinematografiche che coinvolgeva non solo i cineasti ma anche gli spettatori: «Quando nell’81 tutti facevano film politici, ci diceva, io ho voluto fare un film su Milosz. Ci si aspettava che anch’io facessi qualcosa del genere, come forse dopo questo stato di guerra si aspettano che faccia vedere Walesa. Il film da La valle dell’Issa di Milosz riprende il tema della mia giovinezza in Lituania che è la mia terra di origine come Milosz. Riprende anche il mistero che fa di questa regione polacca la patria dei poeti».