«Abbiamo delle ottime istituzioni e delle buone leggi, anche se quest’ultime si sono concentrate sulla conservazione, e sulla valorizzazione non c’è quasi niente. Invece, la valorizzazione è il segreto della tutela. Perché se si gestisce bene un luogo, si trovano anche le risorse per preservarlo. Il National Trust – che lavora per conservare e proteggere l’eredità storica e naturale di Inghilterra, Galles e Irlanda del Nord – incassa da un monumento esattamente ciò che spende mentre i ricavi dello Stato sono altamente al di sotto degli investimenti. Con il Fondo Ambiente Italiano vorrei arrivare al medesimo risultato del National Trust, per poter dimostrare che una gestione intelligente e socialmente aperta può portare a dei vantaggi straordinari per il monumento stesso. Io voglio un’espansione dello Stato, non una sua riduzione. L’Italia è gremita di beni e non è possibile che lo Stato possa occuparsi di tutti. L’aiuto sussidiario della società civile è fondamentale per andare avanti».

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Ha le idee chiare, Andrea Carandini – decano degli archeologi italiani, presidente del Fondo Ambiente Italiano (Fai) dal 2013. In un’intervista «peripatetica» – come lui stesso si diverte a definirla – risponde alle domande del Manifesto su temi d’attualità riguardanti il patrimonio italiano, nell’energica convinzione che non bisogna rimpiangere una società ormai superata, che solo i «pontefici» della cultura vorrebbero salvaguardare. «La Storia – dice Carandini con lo sguardo sapiente di chi ha già attraversato molte strade, partendo da quelle del mondo antico – si muove sempre più velocemente dei nostri passi».

In riferimento alla decisione del governo di mettere in vendita immobili appartenenti al demanio e in rapporto al suo impegno nel Fai, qual è il ruolo che i privati e le associazioni dovrebbero avere nella gestione dei beni comuni?

Nel pensiero socialista passato c’era l’idea che lo Stato poteva e doveva provvedere a tutto. Io mi rifaccio alla tradizione occidentale e alle liberaldemocrazie. Più in particolare, vorrei riprendere il pensiero di Alexis de Tocqueville, il quale teorizzò che una repubblica interamente istituzionalizzata non lascia spazio alle libertà. D’altra parte, una repubblica che non ha istituzioni non dura. È necessario, dunque, un giusto equilibrio tra istituzioni e azioni dei singoli cittadini e di associazioni di cittadini. La libera stampa, le libere associazioni e le amministrazioni locali e autonome erano per Tocqueville un contrappeso essenziale per tenere sotto controllo ma anche per supportare le istituzioni della nascente democrazia americana. Ciò è perfettamente rappresentato anche nella nostra Costituzione, che nell’articolo 118 dice che lo Stato, i Comuni e le Regioni devono favorire la sussidiarietà recata dai singoli e dai cittadini associati. Ora, se questo è possibile in ambito sanitario, perché non dovrebbe esserlo per i beni culturali? Dal nostro assetto emerge come il ruolo dello Stato sia preminente ma se questo è comprensibile per le azioni di tutela, ho delle perplessità riguardo lo Stato come gestore del patrimonio culturale. Infatti, chi gestisce non può essere anche il proprio controllore, perché una coincidenza tra controllore e controllato genera inevitabilmente autoreferenzialità. Inoltre, l’amministrazione centrale dello Stato con tutta la sua burocrazia, rende la gestione statale molto pesante e impedisce la scioltezza di cui ogni intrapresa dovrebbe beneficiare.

La Riforma Franceschini, separando i Musei dal territorio – dunque dalle Soprintendenze – ha scisso tutela e valorizzazione. È un paradosso o una buona idea?

La distinzione tra tutela e valorizzazione è inscritta nell’articolo 9 della Costituzione che si compone di due commi. Il primo, mai abbastanza ricordato, afferma che la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura; il secondo dice che la Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione. Quindi sono due funzioni di cui la più importante – che noi chiamiamo adesso valorizzazione – è quella alla quale si è prestata meno attenzione e su cui il pensiero più radicale, per me anche il più conservatore, vede come fumo negli occhi. Per i fautori di tale pensiero, solo la conservazione ha ragion d’essere mentre la valorizzazione non esiste. Questo non è sancito dalle leggi né dalla Costituzione ma vive dentro un’ideologia. Io penso, dunque, che questa distinzione di funzioni tra tutela e valorizzazione sia logica, seppur provi scetticismo in merito ai risultati. A mio parere, infatti, il corpo dei funzionari è tradizionalista e anziano e mettergli a capo delle persone di tutt’altra formazione è come prendere la testa di un ventenne e applicarla al corpo di un ultrasettantenne. Se gli obiettivi della riforma dovessero fallire, un ente autonomo controllato dallo Stato – già auspicato da Giovanni Urbani e dalla commissione Franceschini – potrebbe essere una delle vie oltre alla sussidiarietà di enti no profit come il Fai. La sfida è di ammodernare lo Stato, dandogli possibilmente degli strumenti privatistici. Questo non esclude l’azione sussidiaria delle associazioni, le quali non vogliono affatto sostituirsi alle istituzioni ma essere al loro fianco. In Italia ci sono 6 milioni di volontari, il volontariato è voluto, desiderato, spontaneo ma è chiaro che lavoro e volontariato devono rimanere distinti. Ben vengano, a questo proposito, iniziative come quella del Mibact per l’assunzione di cinquecento nuovi funzionari.

I restauri a Pompei che tanta eco hanno sui media, sono funzionali a una maggiore fruibilità del sito o si tratta di una forma di spettacolarizzazione dell’archeologia?

Trovo normale inaugurare un monumento in positivo ma vorrei fare un discorso più radicale contro quello a cui stiamo assistendo a Pompei. Quando, nel 2012, presiedevo il Consiglio Superiore per i Beni Culturali e Paesaggistici è stato varato un progetto Pompei mirato alla manutenzione e non al restauro, grazie al quale abbiamo ottenuto cospicui fondi europei. Dopodiché, i ministri precedenti a Franceschini – ma soprattutto l’alta burocrazia – hanno trasformato la manutenzione ordinaria nella vecchia pratica del restauro. Attualmente, una cifra enorme (150 milioni di euro, ndr) viene spalmata su una parte minima del sito archeologico. Concentrare le azioni sul 5% di Pompei: questo è l’errore, non l’inaugurazione. L’altro sbaglio, che commette il Ministro Franceschini ma soprattutto il Soprintendente Osanna, è dichiarare che ai restauri seguirà la manutenzione, mentre quest’ultima dovrebbe essere prioritaria. Bisogna rinunciare ai grandi restauri – che hanno certo dei vantaggi perché aprono delle domus al pubblico – e tornare subito alla prevenzione. Se ricominciano le piogge, infatti, ricominceranno a crollare i muri.

Gli archeologi, in questi ultimi anni, sono stati al centro di appassionate lotte per il riconoscimento della loro professione. Lei che ha praticato l’archeologia «militante» ma è stato anche accademico di lungo corso, pensa che gli archeologi possano avere un ruolo determinante nella società attuale?

Nell’archeologo è insita una capacità manageriale che normalmente l’umanista non ha. La mentalità contestuale dell’archeologo è quella adatta per lo spirito di oggi ed è ciò che la gente ama ed apprezza. I monumenti non possono essere curati e valorizzati in quanto tali ma devono essere fulcri dei sistemi paesaggistici che hanno intorno. Se la Costituzione entra nel cuore dei cittadini, i giovani archeologi troveranno il loro posto. Bisogna anche ricordare che il lavoro si può pretendere eticamente ma poi bisogna produrlo. Ed è necessario che gli archeologi, per farsi accettare, imparino a farsi comprendere dalla società.