«Yo digo que es muerto uno de los mejores caballeros del mundo» dichiarò, solenne e probabilmente anche commosso, l’imperatore Carlo V, a Toledo, di fronte al corpo di Baldassarre Castiglione, l’8 febbraio del 1529. Il sovrano dell’impero più vasto di ogni tempo si inchinava dinanzi al più grande (e forse ultimo) dei Cavalieri, erede della tradizione cortese che l’Orlando Furioso nel 1516, con nostalgia un po’ ironica, aveva dichiarato ormai conclusa: «O gran bontà de’ cavallieri antiqui!».

Da quattro anni Baldassarre era arrivato in Spagna come nunzio di papa Clemente VII, in uno dei periodi più difficili e conflittuali dell’età moderna. Il suo ruolo era delicatissimo: ambasciatore raffinato e di lunga esperienza con i Gonzaga di Mantova e i Montefeltro di Urbino, doveva soprattutto mediare fra una Curia pontificia filofrancese e un imperatore che ambiva a essere riconosciuto e incoronato anche dal papa (e lo sarà solo nel 1530, dopo disastrosi eventi militari).
Alla violenza degli archibugi di Carlo aveva ceduto anche la spada dalla bellissima elsa sottratta dagli Spagnoli a Francesco I di Francia, l’ultimo re-cavaliere, caduto loro prigioniero nella battaglia di Pavia, il 24 febbraio 1525. Trecento anni più tardi Napoleone manderà i suoi generali a cercarla a Madrid, per riportare a Parigi quell’emblema del prestigio perduto (è stata esposta a Ferrara nella mirabile mostra ariostesca di palazzo dei Diamanti, fino al 29 gennaio). Finita la cavalleria, finita la cortesia, non restava che la corte, capace di esprimere ormai solo una politica fondata sull’uso della forza. Baldassarre Castiglione, «uno dei migliori cavalieri del mondo», si era portato nella tomba l’ultimo sogno della «politica cavalleresca» e della «corte cortese».

Con gli archibugi e i cannoni l’esercito mercenario di Carlo aveva piegato Roma in quel «Sacco» dei primi di maggio 1527, di cui nei secoli rimarrà il ricordo terrificante. La memoria collettiva del caput mundi era annegata in quelle «calamità (…) tanto grandi, che quasi come universal diluvio hanno fatto le miserie d’ognuno eguali»: così da Valladolid, il 25 agosto 1527, Castiglione scriveva a un’intellettuale sensibile e colta come Vittoria Colonna. Il 12 agosto si era rivolto in via diretta a Clemente VII, rinchiuso a Castel Sant’Angelo assediato dalle truppe luterane inferocite, difendendo il proprio operato dalle accuse del papa e dei suoi cortigiani, e descrivendo un Carlo V amareggiato per la situazione sfuggitagli di mano: «l’Imperatore non hebbe mai equal dispiacere a quello che ha sentito e sente per il caso occorso a Vostra Beatitudine, né desidera cosa al mondo più che vederse amato da quella cordialmente, e come figliolo».

Il confine fra l’autenticità emozionale e l’artificio diplomatico è labile per un umanista educato sui classici: e così il discrimine tra il familiare e il politico, che si innervano su una sola sensibilità umana e culturale. Nella lettera inviata il 15 settembre da Palencia a sua madre Aloisia Gonzaga Castiglione, confidente sicura nei momenti più difficili, si mescolano dolore sincero e percezione angosciata del proprio fallimento pubblico: «il dispiacer mio della ruina de Roma, la qual cosa, ancorch’io mi sforzi passarla con minor affanno ch’io posso, pur holla sentita e sentola nel core, e Dio sa quante volte la ho veduta in aere e preditta e scritta, ancorché poco me sia stato creduto: bisogna haver patientia». La lontananza accresce il senso di impotenza di fronte a quello che dovette apparire proprio un diluvio e un giudizio universale: sembrava la fine del mondo, ed era la fine di un mondo.

In pochi anni il mondo cambiò radicalmente, con furiosa accelerazione: la scoperta di nuovi continenti, l’introduzione delle armi da fuoco nella guerra, l’invenzione della stampa a caratteri mobili e la sua rapida diffusione, la riforma protestante che portava con sé un grande rimescolamento di carte negli assetti dell’equilibrio politico e religioso europeo. In quell’universo ribollente, che Ezio Raimondi definì Rinascimento inquieto, l’elegante platonico Castiglione nel Cortegiano canonizzava per l’Europa, insieme con il Galateo di Giovanni della Casa, il comportamento privato e pubblico come dispositivo sociale. E dalla corte, che per lui rimaneva il centro ideale di perfezione spirituale ed estetica, poteva guardare ancora come una «nobile e gran pittura» la «machina del mondo coll’amplo cielo di chiare stelle tanto splendido». Niccolò Copernico aveva incominciato a scrivere il suo libro sulle rivoluzioni celesti, che, maturando nell’età di Galileo e di Keplero, avrebbe contribuito a rovesciare la visione del cosmo. In ogni aspetto il primo Cinquecento segna uno scarto storico epocale, una catastrofe epistemologica.

Castiglione è l’emblema perfetto dell’umanista elegante travolto dalla brutalità della storia, del consigliere che plasma sull’esperienza e sull’idealizzazione un modello di gentiluomo ormai superato dai fatti: «cortegiano sconfitto dall’antagonista mutante, la Fortuna», Castiglione «non moriva cortegiano: si era congedato dal ruolo, e dal libro che lo aveva ipostatizzato», sintetizza bene Angelo Stella nell’Introduzione (Al limite della corte) alla monumentale, preziosa edizione delle Lettere famigliari e diplomatiche (Einaudi, 3 voll., pp. 1185+1318+1033, € 220,00), che lui stesso ha curato portando a termine il lavoro iniziato nel 1978 da Guido La Rocca e interrotto dopo la sua morte, nel 1991.

Il celebre ritratto firmato da Raffaello, oggi al Louvre, ci restituisce il volto intelligente e la sobrietà dell’uomo di mondo vecchio stile. Della sua personalità complessa, un poco malinconica, testimoniano le poco meno di duemila lettere, in cui la Storia grande della politica si intreccia con la storia minuta delle vicende di famiglia, e la passione letteraria pervade l’orizzonte del magma quotidiano. Nelle pieghe segrete di questi foglietti leggeri affidati ai «cavallari»-postini, dove le sofferenze e le speranze si depositano nella pacata educazione al ragionare e all’argomentare, si racchiude la manifestazione perfetta dello spirito conversevole, della civiltà di corte.
Così si alternano dispacci politico-diplomatici e ansiose richieste di libri. Appena arrivato a Madrid, fra 14 e 26 marzo 1525, Castiglione chiede ad Andrea Piperario «quando si potrà haver la gramatica del (…) Tressino e del Bembo mi sarà carissimo haverle, insieme con quelli libri di Maestro Lione». Il 31 marzo scrive al vescovo Giovan Matteo Giberti, molto legato al papa e agli ambienti filo-francesi di Roma, per garantire circa la posizione di Carlo V, che aveva appena imprigionato Francesco I re di Francia: «per quanto intendo qui, questo è un bonissimo Signore e de bona conscientia, et obedientissimo alla sede apostolica, e per tale è tenuto di qua».

Ai tre figli scrive in latino una lettera-testamento elegante e tenerissima, il 13 luglio 1528. E poi, mentre la situazione politica europea precipita, quasi si commuove per la pubblicazione del suo Cortegiano. Il 9 aprile 1527, da Valladolid, dà istruzioni a Cristoforo Tirabosco perché il manoscritto che ha spedito a Venezia sia recapitato a Giovan Battista Ramusio, di cui si fida; e si preoccupa circa «il comprar la carta reale per li trenta libri» (vuole insomma anche qualche esemplare di lusso). Quando il libro esce, lontano come l’amor de lonh dei poeti cortesi, chiede a sua madre Aloisia, il 27 dicembre 1528, «che me mandi quella cassa delli miei libri del Cortegiano, la qual cosa desidero molto». E poche righe dopo passa fluidamente alle «cose d’Italia», che, «ancorch’io non le veda presenzialmente con gli occhi, vedole con l’animo in absentia, e tanto me ne dole quanto deve doler a un buon christiano e bon italiano».
Sarà una delle ultime sue lettere. Potrà scrivere ancora solo due volte, il 22 gennaio 1529, a Federico Gonzaga e a Giovan Giacomo Calandra, suo «Compadre». Poi l’8 febbraio, l’Imperatore del mondo reciterà l’encomio funebre di «uno de los mejores caballeros del mundo».