«Arrogante e papale», per usare le parole di Guccini, la diocesi di Bologna lo è stata davvero negli ultimi trent’anni. Forse proprio perché la città era «rossa» e quindi pericolosa agli occhi di una Chiesa che aveva messo in soffitta la stagione del dialogo con i comunisti. Soprattutto, perché lo stesso mondo cattolico sotto le Due Torri era attraversato negli anni Sessanta da fermenti e spinte propulsive inquietanti agli occhi della Santa Sede.

Nel 1968 l’arcivescovo Lercaro, alfiere della chiesa dei poveri e protagonista del confronto con Dozza, veniva rimosso per incompatibilità con la «restaurazione aggiornata» post-conciliare di Paolo VI.Tre anni dopo era commissariata la redazione della rivista Il Regno, organo del progressismo cattolico bolognese, ma di respiro nazionale. Dopo il lungo e piatto episcopato del card. Poma, tocca ai vescovi vicini a Comunione e liberazione imprimere la svolta definitiva: Manfredini, Biffi e infine Caffarra, quest’ultimo distintosi recentemente nella battaglia clericale contro le trascrizioni delle unioni gay contratte all’estero. Intanto la falce e martello ha lasciato il posto a nuovi simboli fino ad arrivare al tricolore democratico, prima quello di Pier Luigi Bersani, che a Bologna aveva una delle sue roccaforti, e poi quello del partito della nazione di Matteo Renzi.

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  Proprio in ragione di questo passaggio politico-culturale, viene da pensare, l’insediamento in ottobre del battagliero monsignor Matteo Zuppi, che segna la fine di una lunga stagione ecclesiale, ha suscitato tanto entusiasmo anche tra i bolognesi (orfani) di sinistra. Si tratta dell’entusiasmo sincero di chi non è interessato agli equilibri interni al mondo cattolico e quindi al dibattito sul legame dell’arcivescovo alla comunità di Sant’Egidio, movimento laicale figlio del ’68 cattolico e oggi particolarmente rilevante anche sul piano politico. L’attenzione della società bolognese alla figura di «don Matteo» si è accresciuta poi negli ultimi mesi di conflitto tra i movimenti sociali e Palazzo D’Accursio.

«Prete di strada» rodato nel privilegiare l’interesse degli ultimi, Zuppi ha dato mostra di una notevole capacità di mediazione politica, probabilmente retaggio delle sue esperienze internazionali. Come papa Francesco, ha saputo gestire con intelligenza anche il piano mediatico senza paura di prendere posizioni forti. «Ci vado io a occupare il municipio», chiosa al termine dell’incontro con le famiglie dell’occupazione di via Irnerio. Attirano le critiche della destra anche i moniti indirizzati ai dirigenti aziendali in materia di crisi economica e difesa del lavoro. Dopo il «buon lavoro e buona lotta» rivolto agli operai della Saeco di Gaggio Montano, è la volta della partecipazione alle celebrazioni del Primo Maggio. Al centro del discorso nuovamente la dignità del lavoro.

Sul piano della retorica le analogie con Bergoglio sono dunque evidenti: dall’ispirazione al Concilio Vaticano II all’opzione preferenziale per i poveri, per gli immigrati, per le periferie. Analoga è anche l’attenzione alla coerenza tra le parole e uno stile di vita sobrio, pastorale e dialogico. Nel suo bagaglio per Bologna – ha dichiarato a Famiglia cristiana – Zuppi ha portato l’Evangelii Gaudium, il documento programmatico di papa Francesco. In quel testo il pontefice ha descritto la sua «Chiesa in uscita».

L’arcivescovo di Bologna sceglie l’immagine del «fiume che irriga anche terre che non sa di irrigare».

Significative sono anche le parole pronunciate in Regione ai primi di maggio: «C’è una tradizione e tanta esperienza di solidarietà frutto di una sfida al rialzo negli anni passati tra la Chiesa e il Pci, che qui ha generato tanta attenzione al bene comune».

Il riferimento è alle politiche d’integrazione e arriva a chiusura di una riflessione a tutto tondo sull’impegno sociale della diocesi (anche attraverso la donazione dei proventi della multinazionale Faac, di proprietà curiale), sull’emergenza casa, sulla lotta alla mafia, ma anche sulla difesa del crocifisso nelle scuole.

La «sfida» lanciata da Zuppi si gioca sul terreno del sociale e anche da questo punto di vista si inserisce perfettamente nel processo di rinnovamento di Bergoglio, decisamente più lento e parziale quando in discussione ci sono le questioni della morale, della laicità e della biopolitica. Nel caso di Zuppi, siamo comunque distanti dall’interventismo del card. Bagnasco in difesa della «famiglia tradizionale». Espressione del modello di episcopato che papa Francesco immagina per l’Italia, Zuppi ha invertito le dinamiche del passato, quando era la Chiesa bolognese a inseguire il Pci sul piano del consenso popolare e dei disegni di trasformazione. Bologna è diventata così il laboratorio di un’istituzione ecclesiastica che sta cambiando, ma anche la manifestazione più evidente di quella crisi identitaria a sinistra che il papa ha reso manifesta.