Quell’americano enorme, dall’aria da bonaccione ma non fatemi arrabbiare, sembrava uscito dritto da un albo Bonelli. Bud Spencer lo si immaginava senza troppi problemi al fianco di Tex, un pard di quelli che come El Morisco apparivano a intervalli irregolari, o un compagno di avventure di Zagor, uno di quegli omoni con cui fare a botte prima di sbronzarsi. Bud aveva la faccia giusta. Una faccia salgariana che per un miracolo dell’immaginario collettivo ci sembrava più «americana» della bistecca willeriana circondata di patate.

E invece no. Bud Spencer era di Napoli. Nato il 31 ottobre del 1929. Nel quartiere di Santa Lucia. All’epoca, però, si chiamava Carlo Pedersoli. Ed era lui stesso a rievocare divertito l’aneddoto riguardante un suo giovanissimo ammiratore che gli chiede un po’ sconcertato: «Uè, ma che sfaccimm’e nomm’è Badde Scpenger?». La vita di Perdersoli è una di quelle vite da ventesimo secolo. Nel cinema solo Manoel de Oliveira può vantarne una altrettanto avventurosa nonostante interessi artistici completamente differenti divisa fra un prima sportivo (e senza contare gli interessi musicali).

Bud Spencer è stato un uomo d’altri tempi. E, nonostante la brevità icastica del suo nome d’arte, ha abbracciato una grande fetta della storia del nostro cinema e una porzione ancora più importante del nostro immaginario alle porte dell’impero.
Bud Spencer: un nome segno e sintomo di una produzione cinematografica che non esiste più; un cinema che aveva deciso di fare concorrenza agli americani sul loro stesso terreno. Un cinema, quello di Bud Spencer e Terence Hill, i cui effetti sono stati avvertiti anche molto lontano da Roma. Basti pensare alla strana coppia Sammo Hung e Jackie Chan che riprendeva, magari con maggiore virtuosismo fisico e coreografico, proprio il principio Laurel&Hardy riportato in auge da Hill&Spencer.                   

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Certo, erano solo sganassoni, verrebbe voglia di dire, niente di trascendentale, ma per citare i Rolling Stones «erano solo sganassoni ma ci piacevano».
Con la scomparsa di Bud Spencer inevitabilmente ci si interroga sulla natura del fantomatico cinema «popolare» al cui passaggio bisognerebbe alzarsi in piedi come raccomanda, parafrasandola, la canzone di Fossati. Perché «se c’ha qualcosa da dire, ce lo dirà».

Il cinema di Bud Spencer, stando ai necrologi, sembra evocare un tempo edenico quando in provincia il cinema costava 500 lire e si poteva ancora fumare in sala e vedere il film a ripetizione. Un cinema anche «parrocchiale», perché nonostante il brontolio del Centro cattolico cinematografico si trattava di storie a base familiare.
Eppure c’è dell’altro, oltre al lutto per un eroe cinematografico che ha attraversato molte stagioni del nostro cinema e che ha dato lustro ai ranghi dei napoletani di genio come Totò e Peppino Amato. Un eroe che, tra l’altro, ha allevato e visto crescere intere generazioni di cinefili che poi hanno abbandonato Bud, come un amico che non cambia mai, per abbracciare fratelli maggiori esigenti come Béla Tarr e altri.

Per chi, invece, l’Italia la vedeva dalla Svizzera o dalla Germania, cercandola nei cinema in prossimità della stazione centrale di Zurigo, in sale dal nome evocativo come il Rex o austero come il Forum, Bud Spencer aveva addirittura un potere federativo. Scoperto l’incanto che Spencer in realtà non solo era italiano ma addirittura di Napoli, scattava inevitabilmente un’adesione che andava ben al di là della riuscita dei singoli film.
Bud era l’eroe di quelli che stavano lontano da «casa», e non erano solo gli italiani. Al buio di sale dove si proiettavano film come I due superpiedi quasi piatti (e che ridere quelle portiere strappate a ripetizione andando a marcia indietro!) ci si sentiva meno «stranieri». Si rideva a squarciagola insieme a spagnoli, portoghesi e iugoslavi (esistevano ancora).

Carlo Pedersoli era (anche) l’eroe, ma all’epoca non lo sapevamo ancora, dei migranti d’Europa; l’eroe della gente che s’ammazzava di lavoro, dalle mani grosse, ma che la domenica si concedeva un film come se fosse un lusso. Era l’eroe di questa gente che lavorava, con la sua magnifica faccia «americana» che poteva essere pure la nostra.
E poi Bud Spencer, come James Bond, viaggiava sempre. Dall’Africa a Miami non stava mai fermo. E dovunque andava brontolava e menava le mani. E ci piaceva così. Il suo racconto del mondo probabilmente non è mai stato pensato per sopravvivere al passaggio della linea grigia.                               

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Ma va bene così. Perché se è finito persino nel cinema di Ermanno Olmi – in Cantando dietro i paraventi del 2003 – permettendoci di pensare «ve l’avevamo detto noi!», Bud Spencer lo deve proprio alla sua faccia salgariana. Una faccia le cui storie erano sì fatte di sganassoni (ne sa qualcosa il «mitico» Riccardo Pizzuti, detto «er Pizzuti») ma anche di un intero mondo – e di un popolo – non solo italiano che a quella chanson de schiaffoni attingeva avidamente per ritrovare e inconsapevolmente pensare un posto in un universo che fatalmente lo aveva collocato ai margini del consumo.
Bud Spencer è un eroe popolare di classe. Non permettete a nessuno di dirvi il contrario. E se è esistito qualcosa che assomiglia al «cinema popolare», allora probabilmente si chiama Bud Spencer.