Come attraverso le porte girevoli di un albergo dei sogni: appare, scompare, entra e esce dagli anni ‘30, dall’incipit dei ‘40, dai cunicoli oppressi e pulsanti di un tempo tra le due guerre, da fotoreportage di viaggi senza confini – Oriente bacia Occidente – da immersioni negli oceani della scrittura … Come Alice si cerca in un domino di specchi, si sfoca, si perde, ricompare su Youtube … con la sua voce delicata e profonda scartavetra l’aria di un concerto rock, «Mi è stato fatto il dono di una libertà terribile!». Non può fare a meno di: a) una sigaretta tra le dita, b) una cravatta, c) pantaloni, giacca e camicia di seta, d) capelli corti, taglio curatissimo e «dimenticato» insieme. Eppure la sua eleganza duttile e nervosa non è lì, ma in un melange inesprimibile di donna e uomo, fuori e dentro, da far pensare a Orlando di Sally Potter/Tilda Swinton, al genere come a un riflesso di luce da inseguire per i labirinti delle ere di Virginia Woolf … Ma quanto, ci chiediamo, nel «frattempo», quelle vie di fuga, le uscite, le finestre, si sono realmente espanse, moltiplicate?
Je suis Annemarie Schwarzenbach di Véronique Aubouy è un film perfetto per chi si è già inoltratato per i boschi e le radure della scrittrice, giornalista e fotoreporter svizzera, nata nel 1908 e vissuta nel corpo soli 34 anni, per chi ha già sentito la propria fronte sfiorata dal suo «gelo bruciante», eppure, e questo è molto bello, lo è anche per coloro che non hanno mai varcato gli anfratti d’ombra in cui a lungo la critica ha lasciato la sua vita e le sue opere incandescenti, per chi non sa nulla di lei.
Al tempo stesso, si può immaginare questo documentario aereo e metamorfico come un nucleo vivido di suggestioni e di promesse per la tredicesima edizione del Florence Queer Festival (11-17 novembre), la rassegna di cinema e arte gay lesbica e transgender, guidata da Bruno Casini e Roberta Vannucci, che al momento detiene la staffetta nel ricchissimo avvicendarsi dei fest della 50 giorni di cinema a Firenze.
Come il FQf dunque e secondo i desideri del FQf, quella di Aubouy è un’opera aperta fluida, indefinibile e modellabile, anche perché fatta di ciò che raramente è parte di un film, pur essendone intimamente condizione e preludio, ossia il casting. Quella materia viva di provini, incontri, ansie, foto video, attese, microimprovvisazioni, insolite richieste «in voce off» (mostrando una immagine di lei: ecco, questa era una posa che Annemarie amava molto, potreste ripeterla? Salvo che poi si tratta di un ponte all’indietro da ginnasta …), scarti scampoli schizzi studi, individuali e a due, in gruppo, insomma quel qualcosa che solitamente nessuno vedrà mai (soltanto che qui è l’essenza del progetto).
Casting, allora, è ricerca innanzitutto di una immagine, di una allure, del quid di uno sguardo, di un minuscolo gesto, una fisicità, tra book fotografici e patchwork di album sul computer, schermi negli schermi e una piccola stanza dove si rincorrono metacinema e teatro, una lampada rossa, antichi ritratti posati a terra, semplici stampe da internet appese con lo scotch alla parete, e un piano, al cui studio, lei, venuta al mondo in una famiglia dell’alta borghesia, era stata guidata fin da piccola.
Ma lavorare sul «casting» può anche voler dire accostarsi alla biografia senza perdere in profondità e svicolando dalle pesantezze che possono affliggere questa tipologia di film (il pericolo di voler dire troppo, di sovrinterpretare, di non arrendersi a quella porzione di mistero custodita in ogni vita – al FQf questa scommessa la lancia anche Fassbinder di Christian Braad -). Forse con questo intento, la regista, insieme alla fedele script e alle attrici e agli attori che si sono proposti per incarnare Annemarie, gioca a sottrarre e a suggerire, coltivando un vivaio di magistrali e repentine epifanie di A.S.: eccola infatti per sempre giovane (e come sembra tenera la presenza delle trentenni oggi!), contemporanea, «non cerco una copia, non siamo più negli anni ’30», ora invece ci commuove col suo tocco tempestoso al pianoforte (ma è Pauline LePrince che come A. ha studiato tra Parigi e la Svizzera e come lei è splendida mentre cavalca), oppure racconta dello strazio del dire ai suoi della propria omosessualità (ma è Mégane Ferrat), ancora passa in un lampo dalla percezione della sua frustrazione all’imitazione del piglio decisionista e impositivo di sua madre (ma è Julia Perazzini) … O invece narra dei suoi viaggi in Persia, del suo matrimonio con un diplomatico, dell’amore sconfinato per Erika Mann, figlia dello scrittore Thomas – li raggiungerà negli Stati Uniti quando sanno costretti a sfuggire al nazismo – , (ma è Valentin Jean). Perché è A. S. ma non lo è. Una nessuna e centomila Annemarie Schwarzenbach, come bolle di sapone al sole, le immagini di lei si moltiplicano si infrangono si sfiorano volano via. Perché Ogni cosa è dai lei illuminata. «Non sono lei ma lo diventeranno» confida sorniona la regista alla script, spostando su un tappeto damascato in oro le foto di A. ritratta da Marianne Breslauer. O forse resteranno se stesse, anche in quella casa in mezzo al verde dove le prove continueranno, sentiranno la costrizione dell’essere talvolta trattate come «animali da circo», come la madre faceva con Annemarie («Mamma, come quel nome mi fa piangere»), alcune di loro vorranno abbandonare, altre staranno ore a conversare di amore relazioni sessualità, della loro fragilità, confusione, dell’ insofferenza a definizioni che non siano il loro puro sentire, oppure si innamoreranno «non c’è niente di più meraviglioso che aspettare una donna» … Certo, tanto dell’esistenza di A.S., così pregna di passione dolore avventura, rimarrà fuori – ma chi vorrà potrà cercarla nelle sue opere o, per esempio, nelle coinvolgenti biografie di Melania Mazzucco e di Areti Georgiadou -. Talvolta è molto più rispettoso tacere di certi buchi neri che fanno tanto aura maledetta, ma a viverli sono solo orribili e laceranti (lasciar fuori i ricoveri coatti le disintossicazioni forzate la fine incomprensibile e atroce). «Mi sento viva solo quando scrivo» sentiva Annemarie a proposito del viaggio più intimo della sua vita. «La morte solitaria non è altro che il simbolo di una vita solitaria». Ora le sue stesse parole sono un rock delle ragazze dal palco del film, un rock gridato insieme.
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