Quando nell’ottobre del 1904 il generale Lothar von Trotha mette per iscritto che «all’interno dei confini coloniali tedeschi tutti gli Herero, che siano armati o meno, devono essere abbattuti», il più era già stato fatto.

L’annus horribilis per le popolazioni dell’attuale Namibia era infatti iniziato con l’ennesima rivolta contro gli espropri indiscriminati condotti ai danni di due comunità di allevatori, gli Herero e i Nama, che nei secoli addietro avevano a loro volta spinto un po’ più in là, verso il deserto, gli autoctoni San.

La loro colpa è quella di occupare le terre più fertili, sull’altopiano centrale di quella che tra il 1884 e il 1919 è stata l’Africa Sud-Occidentale Tedesca (il primo governatore «imperiale» è Heinrich Ernst Göring, padre del futuro comandante della Luftwaffe e numero 2 del regime hitleriano, Hermann Göring).

È una posizione di rendita decisamente troppo vistosa, in un territorio che per il resto è occupato quasi integralmente dalle inospitali distese desertiche del Namib e del Kalahari, che fanno ancora oggi della Namibia uno dei paesi meno densamente popolati del mondo.

Le autorità tedesche fin da subito iniziano a requisire queste terre per insediarvi i coloni. E quando nel «bottino» finisce anche il bestiame, tradizionale baricentro identitario oltre che economico, alle popolazioni locali non resta altro da fare che ribellarsi.

La cosa avviene a più riprese e puntualmente la repressione è durissima. Ma stavolta si tratta di un’insurrezione armata che libera una rabbia troppo a lungo repressa.

I tedeschi subiscono una pesante sconfitta militare a Waterberg, viene sabotata la linea ferroviaria tra Windhoek e Swakopmund e i moti sfociano tra l’altro nel massacro di 123 civili tedeschi.

La risposta, affidata appunto a von Trotha, che aveva fatto pratica sterminando i civili cinesi durante la rivolta dei Boxer e reprimendo nel sangue la ribellione degli Hehe in Tanganika, è tale da far impallidire al confronto le rappresaglie naziste della Seconda guerra mondiale.

L’ordine di annientamento (Vernichtungsbefehl) parla da sé, anche se era già stato superato dai fatti. In agosto le truppe tedesche avevano attaccato gli Herero in fuga con donne e bambini, vicino al fiume Hamakari. Quelli che sopravviveranno alla battaglia moriranno di stenti nel deserto di Omaheke, dove vengono spinti dalla cavalleria tedesca. Le vittime solo in questo frangente ammontano a decine di migliaia.

Il bilancio finale parla di 100 mila morti, equivalenti all’80% della popolazione herero e al 50% dell’etnia Nama. Vengono considerati gli scontri armati, le esecuzioni sommarie, i campi di concentramento e i lavori forzati. Ma molti furono anche coloro che perirono perché privati di ogni mezzo di sostentamento, o perché costretti a tentare la fuga attraverso ambienti tra i più estremi del pianeta.

È un programma di sterminio che si può ben definire «scientifico», sia per le modalità con cui viene pensato e messo in atto, sia per le sperimentazioni che venivano compiute sui cadaveri. Herero, Nama e in parte anche i Bondei vengono rinchiusi nei lager in condizioni indicibili. Chi non muore viene costretto a bollire e a pulire i crani dei familiari che non ce l’hanno fatta. Verranno poi inviati in Germania per non meglio precisate ricerche scientifiche. Anche per questo si parla della Namibia di inizio secolo come di un laboratorio di delirante onnipotenza, l’anticipazione della successiva follia eugenetica nazista.

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Namibia, memoriale per le vittime dei campi di concentramento

Definizione ufficiale

Se la storia dell’imperialismo non fosse comunque e da ovunque la si osservi una sequela di soprusi e di massacri, a giudicare dalle atrocità commesse in uno dei lembi d’Africa finiti sotto il dominio della Germania nella seconda metà dell’800, l’attuale Namibia, ci si potrebbe a posteriori rallegrare dello scarso interesse manifestato da Bismarck al momento della «spartizione» del continente.

Non per niente si parla di «primo genocidio del ‘900» per descrivere quanto avvenuto in Deutsch-Südwestafrika. Una definizione più che ufficiale da quando, circa un anno e mezzo fa, Berlino ha ammesso lo sterminio pianificato delle popolazioni Herero e Nama, porgendo le proprie scuse al paese che solo nel 1990 ha ottenuto l’indipendenza dal Sudafrica.

Cronaca di un tardivo ma significativo beau geste di verità dacanti alla Storia? La Germania ha inteso forse muoversi in modo propedeutico al pronunciamento sul «genocidio armeno» con cui di lì a poco il Bundestag avrebbe fatto fibrillare i rapporti già tesi con la Turchia. Ammettendo che anche in Namibia si trattò di «genocidio», senza infingimenti, il pulpito da cui lanciare ad Ankara l’invito a fare altrettanto con la questione armena ne guadagnava certo in credibilità.

Fatto sta che Berlino da quel giorno lavora con il governo di Windhoek a una risoluzione mediante la quale i parlamenti di entrambi i paesi dovrebbero prima o poi chiudere la faccenda. Partendo però dalla certezza che qualsiasi pretesa di risarcimento sia da intendersi abbondantemente superata dagli investimenti economici e dai programmi di cooperazione messi in campo dalla Germania a partire dal 1990. In Africa il debito diventa facilmente credito, se a volerlo è l’ex potenza coloniale.

Ma i rappresentanti odierni di quelle due popolazioni, peraltro irriducibili rivali, hanno deciso di mettersi di traverso e di provare a scongiurare un finale a tarallucci-e-vino, affidando ad altrettante associazioni namibiane il compito di depositare presso un tribunale di New York una richiesta di risarcimento collettivo. Cosa avvenuta giovedì scorso. L’indennizzo, sostengono le due associazioni, va corrisposto direttamente ai discendenti, ovunque si trovino nel mondo, e non certo allo stato namibiano. Contestualmente viene reclamato il diritto ad avere rappresentanti propri al tavolo dei negoziati in corso, visto che i due paesi aspirano semplicemente a partorire un testo nel quale alla voce «genocidio» la Germania ammette le proprie responsabilità e presenta le sue scuse ufficiali, con una formula che consenta alla Namibia di accettarle con dignità, gettando così le basi per future relazioni stabili e feconde tra i due paesi.

Una riconciliazione low cost, quindi, che include nel pacchetto anche la restituzione di decine e decine di crani.