Fernando Acitelli è autore di un poema in vernacolo romanesco , diviso in sette canti composti ciascuno da quartine di endecasillabi a rima alternata (“Accattone”,ES,Milano,2015). Un lavoro improbo che Acitelli, già autore di un best-seller in versi(“La solitudine dell’ala destra”, Einaudi), assembla attento alla lezione di Pascarella più che del Belli.

Al centro del racconto c’è l’io-narrante che tenta in continuazione di chiamare al telefono -quello d’antan ,a gettoni- Pier Paolo Pasolini, mentore e guida. La telefonata è continuamente interrotta da altri utenti che hanno bisogno, anche loro, di chiamare. Pier Paolo non può rispondere sì che il tentativo continuamente interrotto assumerà i contorni di un monologo,di un dialogo impossibile costituendo una sorta di proiezione dei propri desideri, della volontà di ripercorrere luoghi mitici collegati alla poetica pasoliniana ma oramai scollegati dalla memoria e incastonati in una realtà urbana sfatta ed irriconoscibile. La Borgata Gordiani, l’Alberone, il Pigneto, Torpignattara dove poco tempo fa un ragazzotto uccise a mani nude un asiatico inerme semplicemente perché la preghiera cantilenante di quello lo disturbava, in questo incitato dal padre che lo spronava a finirlo,come un animale sacrificale; è in questo quartiere che Pasolini ambienta il Ciclo del Merda ormai presago non più di una omologazione culturale ma dello scempio attuato dagli indigeni a difesa improponibile di una cittadella ormai arroccata solo su se stessa. E che dire dei cinema della nostra adolescenza? Il Due Allori, l’Impero, l’Alfieri, sala di prima visione sulla Casilina con la galleria perennemente chiusa per via della scarsa affluenza; l’epigono di Pasolini ci ricorda quel maestoso tetto apribile che con un rumore cupo si apriva sulle notti d’estate per dare refrigerio agli spettatori e liberarli dalla nuvola di fumo degli accaniti tabagisti che veniva come aspirata dalla breccia improvvisamente aperta.

Il racconto è popolato di lemuri in un tessuto urbano degradato dai ‘bruttoni’ che avevano un tempo la leggerezza di un picaro impertinente ed oggi hanno perduto l’innocenza e la grazia di una spontaneità che eludeva il possesso rapace. In questo girovagare senza mèta, nelle osterie e nei bigliardi dove si acquieta la nostalgia, ritroviamo echi di Joyce e il tentativo continuamente interrotto ha un caldo sapore cocteauiano.

Serpeggia il senso profondo di un lutto senza fine, di una ferita non rimarginata, nel desolato silenzio di un interlocutore che non risponderà mai. Le note a corredo dell’opera non sono semplicemente un esergo ma una mappa urbana da percorrere e ripercorrere, ciascuno come sa e come può, nel tentativo inane di ritrovare una identità. Identità pervicacemente inseguita dal giovane âgé che è Fernando, la cui indignazione e il cui sdegno sono palpabili ma tengono dritta la barra. E in questo, e per questo, “Accattone” si pone anche come poema civile.