Il tocco magico di John Lasseter si sentiva inconfondibilmente già nei colori e nello humor di Ralph spaccatutto e nell’energia e nell’ambizione che stavano dietro a Frozen, ma Big Hero 6 sventa qualsiasi dubbio sul fatto che il geniale fondatore della Pixar abbia un grosso ruolo creativo anche nei film realizzati dal dipartimento animazione della Disney. Lasseter è diventato il responsabile di tutta l’animazione dello Studio di Topolino quando, nel 2006, la Disney ha comprato la Pixar. Poco più di tre anni dopo, la Major acquistava anche la Marvel Comics. Big Hero 6 è il risultato di tutte quelle energie messe in circolo, un film i cui primi, magnifici, venti minuti evocano – sia esteticamente che emotivamente – una sorta di necessario passaggio adolescenziale, iniziato dopo che, nel miliare terzo episodio di Toy Story, Andy (e quindi Lasseter e i registi della Pixar) ha ceduto per sempre la sua adorata gang di giocattoli.

I protagonista «umano» di Big Hero 6 (diretto da Don Hall e Chris Williams su libero adattamento di un fumetto Marvel, che ha esordito nel 1998) è infatti un teen ager, Hiro Hamada; e i suoi giocattoli sono robot da combattimento. Li incontriamo, per la prima volta di notte, in un vicolo di San Fransokyo (sublime mix tra la pixariana San Francisco e Tokyo, città in cui è ambientato il fumetto), dove i due archi del rosso Golden Gate Bridge hanno l’outline di pagode, e una certa vibrazione da Blade Runner serpeggia tra le casette vittoriane color confetto arrampicate su e giù per le strade della città. Il suo pallino per la robotica lucrativamente sprecato nei tornei clandestini di lotta tra guerrieri telecomandati, Hiro vive con una simpatica zia, proprietaria di un coffe shop hippie/naturale e il fratello maggiore, Tadashi.

Dopo averlo salvato per l’ennesima volta dalla custodia della polizia, preoccupato per il suo avvenire, Tadashi porta il fratello in visita al laboratorio di robotica della sua università, un paradiso di brillanti nerds, Wasabi e Go-Go Tomada, dove Hiro decide di iscriversi. Per superare il difficilissimo test di ammissione, il ragazzo sfoggia una delle sue invenzioni più recenti, il microbot, un robot di formato minuscolo e molto versatile, che diventa immediatamente oggetto di disputa tra il direttore dell’università, professor Callaghan, e l’imprenditore di alta tecnologia Alistair Krei. Ma quando un incendio improvviso inghiotte Callaghan, Tadashi e i microbots, Hiro, disperato, abbandona tutte le sua ambizioni scientifiche.

È qui che entra in scena il vero protagonista della storia, Baymax, un gigante gonfiabile bianco, punteggiato da due occhi neri e rotondi, dotato della fisicità slapstick di un Buster Keaton che ha però i contorni dell’omino Michelin. Ideato da Tadashi prima di morire, Baymax è una creazione perfetta per l’era Obama (ci piace pensare che prima della riforma sanitaria nessuno spettatore americano avrebbe capito di cosa si stava parlando…): è infatti un health care companion, un robot sorta di via di mezzo tra il dottore e l’infermiere, programmato in nome del benessere fisico e psicologico del suo padrone. Frutto di una lunga ricerca fatta presso i laboratori di robotica delle maggiori università Usa, e modellato su un nuovo tipo di robot morbidi concepiti alla Carnegie Mellon, Baymax ha superpoteri strettamente legati alla sua missione medica. Che però nel film è intesa in senso lato: l’enorme marshmellow ambulante, con la voce incolore e stranamente meccanica, è infatti anche un po’ un filosofo, che dispensa pillole di saggezza, confortanti abbracci spontanei e, quando serve, provvede il calore di una coperta.

In questa dimensione affettiva del film (ispirata, a detta dei registi, ai classici Disney come Dumbo e Bambi) si sente molto anche la presenza dell’irripetibile, commovente, robot spazzino della Pixar, Wall-e. Dopo un inizio folgorante, Big Hero 6 , si assesta più convenzionalmente in una trama che contrappone Hiro, Baymax e gli ex compagni di scuola di Tadashi trasformati in supereroi alternativi dalle loro invenzioni robotiche, a un cattivo in maschera kabuki che controlla una minacciosa onda nera di…microrobots. Sullo sfondo di squarci urbani dal look realistico, che contrastano allegramente con il design pneumatico e la texture semplificata di Baymax, il racconto alterna una moltiplicazione di baruffe e inseguimenti. Ci sono alcune sequenze visivamente molto belle ma il film è molto meno potente nei suoi aspetti Marvel di quando, invece, richiama alla memoria, certi momenti lirici e contemplativi del Gigante di ferro, o lo spirito irriverente di Gli incredibili.