Per alcuni della mia generazione dire di Gianni Scalia è evocare una parte della loro giovinezza: si andava spesso, tra il finire degli anni Sessanta e per tutti gli anni Settanta, a Bologna, nella casa di via Riva Reno, dove abitava Gianni circondato da scaffali e da pile di libri classici e recentissimi, si andava a respirare un’aria che era insieme di fervore conoscitivo e libertà inventiva. Un’esperienza di sovversione fondata sulla passione del pensare e dello scrivere, un’esperienza della critica non protetta dall’usbergo di un metodo o dei metodi di volta in volta egemoni, ma curiosa e inquieta. Che era poi il modo d’essere intellettuali che la generazione di Pasolini, Roversi, Volponi, Fortini cercava di trasmettere alla nostra generazione.

Ho nominato così, senza pensarci, gran parte della redazione della rivista Officina, nella quale Scalia era il più giovane, ma anche il più prossimo a Pasolini, per amicizia e per condivisione di alcuni modi di intendere l’esercizio della critica, la sua militanza: non ossequio ma indignazione, non specialismo ma apertura nei confronti di tutti i linguaggi, non ricomposizione istituzionale, ma insofferenza verso le posture accademiche, i luoghi comuni, le ideologie egemoni. Nel suo insegnamento universitario a Siena queste attitudini erano rimaste visibili e attive.

Gli scritti giovanili di Scalia sul Settecento, sull’Ariosto, sul De Sanctis, sulle riviste del primo Novecento (mirabile la cura del volume einaudiano dedicato a Lacerba e a La Voce letteraria) lasciarono presto il posto a una concezione della letteratura come un terreno su cui soffiavano i venti delle filosofie contemporanee – il marxismo critico, Heidegger, la Scuola di Francoforte, Foucault – e della psicoanalisi e dell’antropologia e persino delle teologie non allineate alle posizioni ufficiali, per come un laico poteva osservarle. Vasta la raggiera delle vicende intellettuali di Scalia: aveva anche partecipato, con pochi altri amici, alla prima esperienza che Basaglia fece a Gorizia di una pratica e di una teoria antipsichiatrica. E fu lui il primo a introdurre in Italia gli scritti e la presenza di Edmond Jabès.

Infaticabile, socratico questionneur, Scalia fu soprattutto fondatore e animatore di riviste. Da Per la critica (1973-1974), che ebbi l’avventura di seguire redazionalmente fin dalla sua ideazione, al Cerchio di gesso, che accompagnò nella Bologna del 1977 la cosiddetta ala creativa del movimento, alla rivista In forma di parole, la più duratura e tenace, la più elegante e forse più inattuale, alla quale resterà legato il suo nome. Di numero in numero, a partire dal 1980, passando dal piccolo al grande formato, e aggregando di volta in volta gruppi di studiosi e traduttori dalle lingue le più diverse, In forma di parole ha esplorato e tradotto poeti di ogni epoca e di ogni cultura.

Procedendo per lingue – dall’ispano-americano (Antonio Melis, scomparso anche lui da poco, era in quest’area espertissimo tessitore) al cinese, dall’irlandese al giapponese, dalle lingue slave a quelle nordiche, e antologizzando testi poetici per temi – dall’angelo all’animale – la rivista ha corroborato e sostenuto e rilanciato l’arte del tradurre. Con l’approdo alla cura della poesia Scalia ha mostrato di privilegiare una marginalità che è sorgente, ancora, di passione.

L’amicizia come condizione in cui può circolare un sapere. Non la posizione di maestro ma quella del convitato che anima il convito, non la rendita di posizione ma l’avventura dell’esplorazione. Questi i segnali, o inviti, che di lui ci restano. È per questo, credo, che nell’ultimo nostro incontro – l’addio era nell’aria – riappariva soprattutto la figura di Pasolini, il grande amico eretico e corsaro.