Presso l’Aula Magna dell’Università degli Studi di Salerno, si tiene oggi la cerimonia per il conferimento della laurea ad honorem in Sociologia e politiche per il territorio a Cesare Bermani. Un evento, in fondo, che contiene evidentemente un paradosso: un riconoscimento accademico oggi «celebra» un percorso di vita, di ricerca e di militanza che di accademico ha davvero ben poco, quasi niente. Proprio per questo, però, l’occasione diventa non rituale: il tentativo di inserire all’interno di una vita accademica ripiegata troppo spesso su se stessa, di un momento di confronto con un percorso, come quello di Cesare Bermani, ispirato a una concezione radicale e conflittuale della libertà di ricerca.

Tanto per cominciare, libertà dai confini disciplinari: la cui forza appunto «disciplinare», ma nel senso che Foucault attribuiva al termine, si sta oggi riproponendo in modo sempre più rigido, grazie al tipo di valutazione che ha preso il controllo dell’intera ricerca accademica. La ricerca di Bermani presenta, al contrario, un esempio di critica radicale all’idolatria delle classificazioni e al paralizzante incantesimo dei metodi che ne deriva. E forse, il modo migliore per onorare questa capacità di infrangere i recinti, è proprio questa laurea honoris causa in sociologia, che è apparentemente laterale rispetto al Bermani «storico delle tradizioni popolari», esponente di primo piano della «storia orale», e via classificando. Ma segna evidentemente la necessità oggi di aprire le scienze sociali non solo e non tanto alla dimensione storica, come si direbbe con formula abusata, ma più precisamente alla dimensione della subalternità e delle soggettività «altre». Soggettività che, pure cancellate dai canoni della storiografia ufficiale, compresi quelli della sinistra ufficiale, costituiscono la carne e il sangue di ogni inchiesta sul sociale che non voglia ridursi a una ingegneria sociologica che espunge programmaticamente la dimensione del conflitto e della soggettivazione politica.

Sguardo radicato nel conflitto di classe, da un lato; dall’altro lato, consapevolezza della ricchezza e dell’eterogeneità della società, sempre striata da soggettività mai riducibili schematicamente ad unità compatte e maggioritarie. Come scrive Raffaele Rauty nella prolusione che aprirà la cerimonia di laurea, «Cesare Bermani è testimone di una scelta di classe irreversibile, di una tradizione di ricerca sostenuta da un legame inscindibile con le espressioni orali, da una filologia inflessibile (…), consapevole, come ogni grande ricercatore che prima di “parlare” alla società è bene provare ad interpretarne le espressioni, anche le più ripiegate e apparentemente contraddittorie».

Si leggano gli studi sulla Resistenza, a partire da quelli su La Volante rossa (ultima edizione per Colibrì, 2009), caratterizzanti dall’inossidabile rigore della raccolta e della registrazione delle fonti (il registratore, appunto, simbolo ben noto delle imprese dello «storico scalzo» Bermani), ma anche dalla solida scelta politica di rifiutare qualsiasi riduzione della Resistenza a sola lotta di liberazione nazionale, per difenderne invece la dimensione di guerra civile e di classe; oppure si seguano, nei saggi de Il nemico interno (Odradek, 2003), le tracce d di una rivolta infinita, che rinasce in forme sempre diverse e non riportabili a nessuna oziosa linearità storica, a partire dalla guerra di liberazione, attraversando l’antifascismo rilanciato dalla generazione del 1960, per giungere alla rottura del ’68. Apprenderemo, da questo straordinario «archivio» delle lotte, la capacità di legare insieme, nella ricostruzione della ricchezza del «sociale», soggettività e conflitto, fino a costruire un lungo, coerente attacco alla storia monumentale, e un vero e proprio modello di storia delle controcondotte.

Bermani ci ha insegnato che, a saper ascoltare le storie dei soggetti, si riscopre continuamente che il soggetto altro non è che, marxianamente, relazione sociale; e che, reciprocamente, non c’è nessuna inchiesta sul sociale, nessun lavoro sociologico, che possa permettersi di cancellare le voci delle soggettività. Per quanto le loro vite siano tenute ai margini dalle concezioni vincenti e ufficiali della storia, in prima linea quelle segnate dalla visione omogenea e lineare del «progresso», i subalterni possono parlare. Ed è particolarmente significativo che questa laurea a Bermani e a tutti i ricercatori scalzi venga da Sud, dal Sud delle inchieste di De Martino, e anche dal Sud di quel Gramsci non ufficiale, non «nazionalpopolare», ma ricercatore della ricchezza delle esperienze autonome benché subalterne «ai margini della storia»: un Gramsci «altro» che è uno dei meriti non minori di Cesare Bermani averci aiutato a riscoprire.