Approvata definitivamente al senato, la nuova legge elettorale deve tornare alla camera perché profondamente diversa da quella varata in tutta fretta a Montecitorio, a marzo scorso. Ed è probabile che anche il prossimo passaggio non sia definitivo. Perché ieri pomeriggio in aula, prima dell’ultimo voto dei senatori, c’è stato un ennesimo strappo ai regolamenti da parte della maggioranza. La senatrice Finocchiaro, che pure aveva cercato di mantenere un profilo basso durante tutta la discussione – la sua candidatura sale e scende nel borsino del Quirinale -, è stata costretta a presentare in extremis una proposta di «coordinamento formale», per tappare le falle della legge. Almeno le falle più evidenti.
Il regolamento consente piccole correzioni nella fase cosiddetta di «drafting», per correggere piccole imperfezioni nel testo di legge che risulta dall’approvazione dei vari articoli ed emendamenti. Esempio: il riferimento a un comma sbagliato. Ma questa volta la maggioranza – che è quella Pd-Forza Italia-centristi del patto del Nazareno – ha proposto 23 modifiche sostanziali, persino recuperando emendamenti bocciati o modificando articoli del Testo Unico del 1957 mai messi in discussione nella proposta votata dai senatori. La protesta delle opposizioni ha costretto a una parziale marcia indietro – molte correzioni sono rimaste, e senza passare dal voto, ma le più clamorose sono state stralciate. Dunque l’Italicum che arriva alla camera è dichiaratamente bisognoso di manutenzione. Possibile che torni ancora al senato.

Poco male per Renzi, al quale interessava chiudere ieri per segnare un punto prima delle votazioni per il Quirinale. Così è stato e pochi minuti dopo l’ultimo sì sono partiti i tweet celebrativi. Dalla prospettiva renziana non si vede la ferita alle regole democratiche. Eppure c’è, come hanno denunciato in aula pochi senatori. Quelli del Movimento 5 stelle, la senatrice De Petris di Sel che ha attaccato la presidenza del senato «asservita ai diktat della maggioranza» e il senatore del Pd Chiti che ha parlato di «violazioni senza precedenti che ci presenteranno il conto». L’elenco è lungo: la riforma della legge elettorale è stata incardinata in aula in un’alba di dicembre, solo per limitare i tempi di discussione a gennaio. Senza concludere l’esame in commissione e dunque senza relatore, malgrado la Costituzione imponga la procedura «normale» per le leggi elettorali. In aula l’emendamento Esposito, che ha riassunto e anticipato i contenuti della legge solo per far cadere tutti gli emendamenti contrari, ha stabilito un precedente che renderà in teoria impossibile per qualunque minoranza proporre correzioni a qualunque legge.
Per il governo è un successo, ma il «merito» non è tutto dello spregiudicato presidente del Consiglio non parlamentare, o dell’arrendevole alleato Berlusconi. Per la riuscita del blitz ha pesato la composizione dell’aula, moltissimi sono i senatori «nominati» al primo incarico e con scarsa attenzione alle procedure parlamentari. E soprattutto è risultata decisiva la conduzione dell’aula, ormai stabilmente allineata con la maggioranza di governo. E così ieri alla minoranza non è servito alzare i toni. «Passiamo alle cattive», ha minacciato il leghista Calderoli, impilando sui banchi un metro di faldoni (i suoi emendamenti ostruzionistici, decaduti). «Siamo pronti a far volare le sedie come nel ’53», hanno aggiunto i 5 stelle, copiando la minaccia e procurandosi in fretta altri fascicoli. Niente: a colpi di maggioranza si è arrivati al voto finale, persino in anticipo sui tempi stabiliti perché a furia di contingentare sono rimaste cinque ore di dibattito inutilizzate. E sono volate urla, non faldoni.

La minoranza del Pd ha mantenuto le su critiche al sistema dei capilista bloccati, in base al quale la maggioranza dei futuri deputati continuerà a essere designata dai partiti e non scelta con le preferenze dagli elettori. Ma non ha votato no, e neppure astensione, che al senato è scelta equivalente. Hanno preferito non partecipare al voto, in ordine sparso: il senatore Gotor è intervenuto «a nome di un gruppo con diverse sensibilità», ma prima di lui erano già intervenuti i senatori Chiti e Mineo e la senatrice Ricchiuti, non disponibili a farsi rappresentare. Situazione simile dall’altra parte, dove hanno preso la parola in cinque che in Forza Italia partecipano alla fronda: Minzolini, Bonfrisco, D’Anna (del gruppo Gal), Bruni e Lettieri. Risultato finale 184 sì, 66 no e due astenuti. Ma in 69 non hanno votato, e tra questi 29 della maggioranza che è al governo con Renzi (25 del Pd, 4 centristi di Alfano e 2 socialisti). A votare contro sono rimasti quelli di Sel, la Lega, buona parte dei grillini e degli ex 5 stelle.

«Dissenso largo e motivato di un quarto del gruppo Pd», ha sottolineato alla fine il senatore Gotor. Ma dissenso «morbido»: scegliendo di non votare hanno abbassato la soglia di maggioranza, e così i 53 voti favorevoli all’Italicum che sono arrivati da destra non sono risultati decisivi. «Forza Italia è stata importante, ma la maggioranza è autosufficiente», ha fatto subito notare la ministra Boschi. Avendo, nei numeri, ragione.