Il testo scritto da Barbara Carnevali sul sito internet le parole e le cose (http://www.leparoleelecose.it) potrebbe essere salutato parafrasando il titolo di un libro di Slavoj Zizek: «benvenuta nel deserto della produzione e consumo culturale».

L’oggetto polemico dell’autrice del testo è la cosiddetta italian theory, cioè quell’insieme disomogeneo di prassi teoriche che vede accomunati filosofi come Roberto Esposito, Giorgio Agamben e Toni Negri. Talvolta qualche improvvido inserisce nella lista anche Mario Tronti, ma le sue quotazioni sono in ribasso dopo il voto favorevole dato, in qualità di senatore della Repubblica, alla legge del jobs act e le sue dichiarazioni a favore del referendum costituzionale voluto da Matteo Renzi. Ma queste sono divagazioni che non attengono al contenuto del testo.

In primo luogo ancora non si sa bene cosa sia l’Italian theory. Come nota anche Barbara Carnevali, è infatti difficile qualificare autori diversissimi tra loro come esponenti di una stessa scuola di pensiero. Sono uomini che, con quel bon ton che contraddistingue chi sa stare in società, esprimono ogni volta che possono il dissenso radicale nei confronti delle tesi espresse dai loro colleghi iscritti alla Italian theory.
Parlare di Italian theory è dunque arduo, nonché un cattivo esercizio accademico. D’altronde lo stesso si poteva dire della cosiddetta French theory, scolastica filosofica giustamente ricordata dall’autrice e demolita da François Cusset in un libro pubblicato da Il Saggiatore che ha avuto però poco fortuna editoriale in Italia.
Al di là dei bersagli polemici di Barbara Carnevali – il neospinozismo radicale, la biopolitica, i postcolonial studies – liquidati come fastidiose mode culturali, il suo testo è interessante non tanto per le critiche che rivolge a chi cerca un bignami del pensiero filosofico contemporaneo, né verso la postura di chi ama il gioco di società delle citazioni sciorinate per sfuggire al deserto del pensiero contemporaneo, piuttosto per la malcelata ostilità verso la perdita di autorità disciplinare della filosofia.

L’autrice ha ovviamente ragione quando elenca i pubblici vizi attinenti la costruzione di scolastiche che servono spesso a riprodurre posizioni di rendita nell’industria culturale. O gli ordini del discorso dove abbondano parole chiave entrate ormai nel lessico accademico. Si potrebbe inoltre segnalare il conformismo imperante nell’accademia o di chi magari fa fede di «attitudine anticonformista». Governamentalità, biopolitica, desiderio, godimento costituiscono ormai una sequenza che attiene a vere e proprie molestie culturali. Invocare il rigore e quel faticoso esercizio del pensiero va bene. Non era d’altronde Antonio Gramsci che scriveva che lo studio è fatica, sofferenza. Il pensiero, e la filosofia, sono infatti quella semplicità sempre difficile a farsi. Senza fatica, non c’è pensiero. Ma non c’è pensiero senza relazioni sociali; non c’è prassi teorica senza deviazioni dal già noto. L’autrice fa bene a ricordarlo, ma quel che stona nel suo testo è altro.

Ci sono espressioni che ricorrono seppure frettolosamente lasciate cadere, mentre costituiscono forse il vero oggetto della riflessione che manca nel testo di Barbara Carnevali. La prima riguarda il fatto che l’autrice si riferisce sempre alla domanda di un prodotto culturale facile da consumare. Qui siamo nel campo noto del rapporto tra domanda e offerta di manufatti culturali. Le mode culturali nascono e tramontano in un susseguirsi di testi, saggi, romanzi che alludo a uno stile interpretativo, narrativo o a un ordine del discorso non sgradito al pensiero dominante. La loro ricezione è governata da una industria che punta a saturare il mercato di merci culturali facilmente deteriorabili e per questo sostituite da altre al variare della domanda. Quel che conta è il mantenimento di un livello sufficiente di fatturato delle case editrici. Su questo l’autrice non si sofferma.

L’altro elemento, invece del tutto assente, è un discorso intorno al modo in cui l’università e la scuola siano attraversate da politiche della formazione basate sulla mera quantificazione delle informazioni trasmesse agli «utenti». La svolta meritocratica passa infatti attraverso la costruzione di pacchetti formativi sempre più «essenziali», facilmente riproducibili e assimilabili da un pubblico di utenti consumatori. L’università e la scuola sono cioè preposte alla costruzione di una medietà culturale funzionale alla riproduzione dei rapporti di potere nella società. Per le «cose» serie bastano una costellazione di pochi centri di eccellenza. Le scolastiche filosofiche – ma lo stesso discorso vale anche per le altre discipline umanistiche e per quelle scientifiche – sono quindi l’esito di una progressiva svalorizzazione del lavoro intellettuale. Se si avesse la pazienza di leggere i report sulla formazione scolastica e universitaria nei paesi dove la conoscenza prodotta e trasmessa risponde a criteri di misurabilità e dunque quantificabili, si noterebbe che le «scolastiche filosofiche» sono immanenti a una pauperizzazione del lavoro intellettuale e a una svalorizzazione della materia grigia. Detto più sinteticamente: le scolastiche filosofiche messe all’indice da Barbara Carnevali sono l’esito di questa immane accumulo di merci culturali.

Il sapere è la conoscenza sottoposti a un regime di quantificazione sono sempre il risultato di una riduzione della qualità, che rimane un oggetto misterioso e che muta al variare dello spirito del tempo. Più che scagliarsi contro le scolastiche filosofiche – esercizio facile dal certo consenso – quel che serve è un sapere che non passi sotto le forche caudine che stabiliscono le unità di misura della conoscenza trasmessa da istituzioni come la scuola e l’università. L’invenzione dell’italian theory è quindi propedeutica a questa riduzione e semplificazione indipendentemente dalla volontà degli autori iscritti a essa. Scagliarsi contro la domanda di pillole di filosofia salva l’anima, ma non contrasta questo meccanismo alla base della produzione di conoscenza.