«Ma perché ti sei travestito da vecchio?» «Perché sono già morto da tempo». Sono queste le scherzose battute che ci siamo scambiati con Ettore Scola pochi giorni fa, ultimo incontro, all’Auditorium dove si celebravano i 40 anni di Repubblica. Fra coetanei molto attempati reciproci accenti di ironia nera sono abitudine: è un modo per non prendere sul serio l’età. E però la mia non voleva essere, l’altro giorno, solo una battuta, ma anche un affettuoso rimprovero. Da tempo Ettore aveva deciso di fare il vecchio e accampava la sua data di nascita quasi a giustificarsi del suo amaro distacco dalla vita corrente, dal cinema così come dalla politica. In qualche modo una resa alla bruttezza del tempo presente, tanto più melanconica per uno come lui che era invece vissuto da combattente. Negli ultimi anni sembrava quasi che avesse delegato al suo corpo, pur ancora bello e giovanile, di esprimere il suo mal di vita: si rompeva sempre qualcosa, una gamba durante un festival di Venezia, poi un alluce, poi non ricordo più che cosa. Ora il maledetto cuore, ma questa volta non era per scherzo.

Non che la melanconia non fosse più rotta da occasioni di gioia, intendiamoci. Una, grandissima, per il film che su di lui avevano girato Paola e Silvia, le sue figlie; e proprio perché a farlo erano state loro due. Poi per la regia – dopo un bel pezzo che attivo era stato poco – della Bohème di Puccini, un grande successo. È stato anzi proprio per via di questa sua bellissima messa in scena che ho partecipato con lui, solo qualche mese fa, a quella che credo sia stata la sua ultima manifestazione pubblica: la presentazione in anteprima, in apertura della annuale conferenza di Eurovisioni, della trascrizione cinematografica dello spettacolo che si era tenuto nel Teatro sul lago Puccini.

L’ultima di una lunga serie di manifestazioni pubbliche: per quasi dieci anni, a cavallo del secolo, dopo essermi per molti anni della mia vita occupata prevalentemente di metalmeccanici e di palestinesi, ero finita ad occuparmi del cinema europeo (come presidente della commissione cultura del parlamento europeo) e italiano (come presidente dell’Agenzia per la promozione). Erano anni di scontro durissimo, quello che fu definito «la guerra non dichiarata» fra Stati uniti e Europa, quando anche l’audiovisivo stava per entrare nel tritacarne dell’Organizzazione Mondiale del Commercio e noi dovevamo sottrarre il cinema dalla condizione di merce cui volevano ridurlo e salvare la sua natura culturale.

Ettore fu fra i non molti che in Italia si impegnò nella battaglia, assieme ai tanti amici e colleghi francesi che per la cultura sono sempre stati in prima fila. Anche per questo, e non solo per la grande ammirazione che avevano per la sua arte, i francesi hanno amato Ettore Scola. Ieri è stata una telefonata da Parigi – non avevo visto la tv e avevo il telefonino con la suoneria rotta – a avvertirmi che Ettore era morto. La Francia tutta è entrata in lutto per la scomparsa del «grande maestro italiano».

Ad Ettore io devo molto. Quando fui coinvolta nel cinema sapevo molto poco ed è stato lui che mi ha aiutato ad orientarmi. Siamo diventati amici, proprio amici, non conoscenti. E gli sono immensamente grata per esser stato lui a sostenere, con una splendida frase sulla controcopertina, uno dei miei primi libri non proprio solo politici; e a presentare, con la solita intelligenza, ironia e calore, alla Casa del cinema, il film girato da Daniele Segre per documentare, attraverso la mia voce, come fu che nel dopoguerra, e poi fino ad oggi, attraverso PCI e Manifesto, un bel pezzo di generazione ha cercato di essere comunista.
Che non sia più fra noi è un grande dolore per tanti, tantissimi.