La capsula del tempo di David Bowie non ha niente di fantascientifico: è semplicemente lo spazio buio dell’armadio di una spoglia stanza, dove lui risorge per poi sparire di nuovo e perdersi nelle viscere uterine della terra o rendersi evanescente lungo la Via Lattea. Quel che può accadere lì dentro, dietro le ante richiuse, dipende dai punti di vista. Andy Warhol affidò più di 500mila oggetti alle sue Time Capsule, immagazzinando così la sua ansia di immortalità. Bowie ha scelto un frammento solo: se stesso.

Il video testamento Lazarus poteva leggersi già come una pagina di musica e arte scritta dall’aldilà. È un body trasfigurato e martirizzato quello che va in scena, simile in tutto alle «presenze» degli azionisti viennesi (Rudolf Schwarzkogler), ma anche alla figura robotica, aliena e anti-umana di uno Schlemmer, che reinventava la biologia a favore di una stilizzazione astratta, richiamando le figure delle danze tribali e d’avanguardia.

Magnifico corpo da museo, cyborg straniante che ricusa l’identità come appartenenza, soggetto ibrido che attraversa i generi sessuali, le epoche e accoglie su di sé – citazione vivente con una funzione centripeta – un vero melting pot di segni e linguaggi, David Bowie ha letteralmente incarnato l’opera d’arte totale, frantumando i confini fin dalle sue prime apparizioni. Sinestetico lo è stato in ogni poro della sua pelle. D’altronde, aveva come stella di riferimento la Factory: il suo sogno era metterne su una propria, dalle parti dell’Inghilterra.

Uno dei suoi primi tributi fu a Andy Warhol (la canzone è nell’album Hunky Dory, 1971). Non lo aveva ancora incontrato, ma aveva potuto vedere e ascoltare le conversazioni di una «pièce» come Pork. Nel suo brano musicale, scorre la quotidianità così americana dell’artista, la sua serialità ostentata; eppure al patron della Pop non piacque granché quel motivo, ma perdonò David grazie alla linea delle sue scarpe. E quando Julian Schnabel girò il film Basquiat gli venne naturale chiamare Bowie a interpretare Warhol. La sua svolta a tutto campo, l’idea di performance come luogo dello stupore e continuo esercizio di crossing, avvenne attraverso uno sguardo puntato sul re della «Brillo box». Poi ci fu la stella di Chris Burden, bodyartista che ebbe il coraggio di inchiodarsi a un Maggiolino e di farsi sparare a un braccio (la canzone Joe the Lion viene da lì).

 

06 Jun 1977, Anet, France --- British singer, songwriter and actor David Bowie in the workshop of Hungarian French artist Victor Vasarely. --- Image by Christian Simonpietri/Sygma/Corbis

 

Sebbene fosse pittore lui stesso – i pennelli li cominciò a maneggiare con la guida di Owen Frampton, che dava a suo figlio Peter lezioni di chitarra e a David di arte – Bowie non verrà certo ricordato per i suoi quadri, ma per il suo corpo cangiante: nella copertina di Diamond Dogs l’illustratore Guy Peellaert lo ha ritratto metà uomo e metà cane, un revenant uscito dalle fiabe dei Grimm. E anche LaChapelle ne ha colto l’anima sfuggente, riprendendolo maschera tra le maschere, intrecciando finzione e verità, ritratto dal vivo e artificio di «persona», nel senso latino.

Fine conoscitore dell’arte, sperimentatore infaticabile, sempre collaborativo con le migliori intelligenze creative, Bowie è partito con l’omaggio al guru dell’optical Victor Vasarely (c’è una sua opera nella cover di Space Oddity del 1969), quasi un saluto simbolico alla psichedelia, per poi chiudersi nell’atelier di Tony Oursler lavorando a quel video Where Are We Now – dove il musicista si trasforma in un puppet inquietante tipico di Oursler – che voleva pronto assolutamente per il suo 66esimo compleanno. «Era uno ossessionato dal lavoro, un workaholic. Proprio come me», lo ricorda l’artista. Con Oursler, che conosceva fin dagli anni Novanta, David Bowie andava alla Frick Collection o al Whitney Museum. Insomma, gli piaceva spendere il suo tempo liberato gironzolando per mostre.

 

david_bowie_where_are_we_now
Where are we now, video di Tony Oursler