Da molti anni, oramai, in diversi paesi del mondo occidentale impera il dibattito circa la decadenza del sistema scolastico. In Italia, le ricerche compiute recentemente rivelano, spesso in maniera evidente, un crescente disinteressamento degli studenti per l’apprendimento e, di conseguenza, un impressionante deficit culturale tra le nuove generazioni. Nel 2001, Mark Prensky movimenta la riflessione collettiva sul tema, con la pubblicazione dell’articolo Digital natives, digital immigrants, sulla rivista statunitense, di àmbito educativo, «On the Horizon». Secondo l’imprenditore e scrittore americano, il nodo della questione risiede nella inevitabile difficoltà «comunicativa» esistente tra una classe di docenti formatasi in maniera tradizionale e convertitasi – non sempre con successo o tardivamente – al mondo informatico (gli immigrati digitali) e i nuovi studenti (i nativi digitali), il cui modo di pensare e di elaborare le informazioni appare sensibilmente trasformato, proprio dall’utilizzo massivo dei nuovi media. L’ingenua rigidità di una simile bipartizione analitica viene messa in discussione dallo stesso Prensky che, quasi dieci anni dopo, con H. Sapiens Digital: From Digital Immigrants and Digital Natives to Digital Wisdom, risolve l’anacronistica parcellizzazione, precedentemente teorizzata, attraverso la potenziale universalità di quella che l’autore definisce saggezza digitale. Non più spartiacque generazionale, nella seconda formulazione prenskiana, il computer e i suoi derivati rappresentano quegli strumenti necessari al raggiungimento di un nuovo tipo di saggezza, potenziata e alla portata di tutti.
D’altronde, già nel 1999, Jay David Bolter e Richard Grusin con Remediation: Understanding New Media mettono in luce una sostanziale continuità nelle modalità di funzionamento dei vecchi e dei nuovi media, in grado di attutire, almeno in parte, le significative differenze esistenti tra di essi. Per i due studiosi americani, tanto la tela pittorica quanto lo schermo del computer operano in maniera tale da produrre una medesima immersione dello spettatore-utente nell’opera-oggetto. In entrambi i casi, questo nascondimento volontario del dispositivo mediatico si realizza attraverso la contaminazione e il potenziamento del medium stesso. Pur preservando la propria innovativa particolarità, quindi, per Bolter e Grusin «i nuovi mezzi di comunicazione stanno facendo esattamente ciò che hanno fatto i loro predecessori: presentarsi al pubblico come versioni migliorate e variate di media già presenti sul mercato. (…) Sono nuove invece le modalità secondo le quali i nuovi media rimodellano i vecchi e, allo stesso tempo, i vecchi media provano a reinventarsi per rispondere alle sfide lanciate dalle nuove tecnologie».

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Al di là della specifica formulazione interpretativa, questa teoria (al pari di altre, più o meno simili nella metodologia o nei contenuti) rivela l’urgenza di tracciare un percorso unitario, che sappia istituire una continuità sostanziale tra gli oggetti culturali tradizionali e quelli contemporanei. Allo stesso modo deve essere letta l’operazione compiuta da Giuseppe Riva con Nativi digitali. Crescere e apprendere nel mondo dei nuovi media (Il Mulino, pp. 198, euro 13). Recuperando la definizione coniata da Prensky (al quale il testo si riallaccia anche per l’interessamento nei riguardi del contesto educativo), l’autore del volume si propone di analizzare l’impatto dei nuovi media sulla società contemporanea, senza ridurre il fenomeno a una questione anagrafica, ma attribuendo un ruolo decisivo al dato «cognitivo ed esperienziale» del singolo individuo. Nel tentativo di identificare un punto mediano tra le molte teorie prodotte sull’argomento, Riva propone di non classificare i nativi digitali quali una «discontinuità generazionale», dimostrando, al contempo, come «nel momento in cui un adolescente, attraverso un uso massiccio dei media digitali, diventa capace di usare la tecnologia intuitivamente i suoi processi cognitivi e sociali cambino».
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Tuttavia, al di là delle ripetute dichiarazioni di intenti, il testo finisce per proporre – con una formulazione ancora più rigida, seppure più estesa, di quella prenskiana – una netta ripartizione cronologica, attraverso la quale a ciascuna delle «quattro generazioni di nativi digitali», individuate dall’autore, viene riconosciuta l’acquisizione di precise capacità tecnologiche. La validità scientifica del testo è, poi, inficiata da una serie di imprecisioni analitiche. Tra queste spicca – in maniera palese – la sovrapposizione latente, ma continua, tra l’idea di utilizzo intuitivo della tecnologia e quella di assoluta conoscenza del medium e del suo funzionamento, a causa della quale si determinano una serie di teorizzazioni forzate, se non imprecise. Infine, a confondere sopra a ogni altra cosa il fruitore di questo volume è l’incomprensibile assenza di un lettore modello, al quale il testo decida coerentemente di rivolgersi. Nell’articolazione dei sei brevi capitoli che compongono il libro (tutti corredati da un riassunto conclusivo), l’autore sembra destinare il proprio lavoro ora a dei professori della scuola dell’obbligo, ora a dei genitori poco esperti di nuovi media, ora a degli ipotetici studenti di un corso universitario (ma mai a tutti contemporaneamente), determinando un costante spaesamento e un periodico disinteresse nel lettore.