L’ultimo libro di Ernesto Screpanti per la Monthly Review Press (Global Imperialism and the Great Crisis – The uncertain future of capitalism, traduzione italiana ordinabile on line su www.ilmiolibro.it)) è assai ambizioso. Che negli ultimi trent’anni, crisi o non crisi, il capitalismo abbia sovvertito i rapporti di forza fra capitale e lavoro marginalizzando in gran parte del globo le forze del cambiamento sociale è un fatto evidente a tutti. L’abbandono delle politiche di pieno impiego sul finire degli anni 1970 complici le ideologie ultraliberiste alla Thatcher e Reagan, la globalizzazione con la concorrenza massiccia nel mercato del lavoro capitalista di centinaia di milioni di nuovi lavoratori e la caduta di ogni speranza nella sfida del socialismo reale sono alla base di questo mutamento epocale. Il mutamento dei rapporti di forza che si era progressivamente prodotto nei precedenti cento anni nei paesi di più antica industrializzazione e culminato nell’epoca d’oro del capitalismo appare ora il risultato di circostanze non più ripetibili, almeno per molte decadi a venire. In questo contesto Screpanti si propone di prefigurare quali sono le caratteristiche del capitalismo nella nuova fase definita dell’imperialismo globale.

Un potere impersonale

Il volume è articolato in sette capitoli, più teorici i primi in cui l’autore utilmente colloca il proprio contributo nel dibattito internazionale sull’evoluzione del capitalismo oltre, naturalmente, a criticare le tesi benevolenti nei riguardi della globalizzazione. Più legati alle vicende delle recenti crisi globale ed europea, alle diverse strategie imperiali e al loro conflitto i capitoli finali.

Quello che si sta affermando, secondo l’autore, è un potere impersonale del capitalismo multinazionale che soggioga nel nome del mercato globale ogni spazio residuo non solo degli Stati nazionali, ma persino delle potenze imperiali piccole e grandi. Tale potere impersonale non può naturalmente fare a meno di strutture di governance globali che assicurino l’ordine politico-sociale e monetario-finanziario oltre che il necessario stimolo alla domanda aggregata. È in questa direzione che gli Stati nazionali continueranno a svolgere un ruolo subordinato sebbene essenziale, accanto alle organizzazioni internazionali (Wto, Fmi, Banca mondiale), entrambi funzionali a quella che l’autore definisce «sovereignless global governance» (governo globale privo di una sovranità statuale definita).

Se queste sono le tendenze, il loro svolgimento non è, secondo Screpanti, lineare. In particolare v’è una resistenza degli Stati nazionali nel difendere uno spazio politico, anche perché stretti fra le esigenze di servire il capitale globale attraverso il progressivo smantellamento e liberalizzazione delle istituzioni della epoca d’oro e quelle di mantenere il consenso interno, un compito a cui gli Stati nazionali sono ancor più chiamati nella nuova fase di riduzione dei diritti cercando di evitare il ricorso a misure troppo manifestatamente coercitive. Così come contraddittoria è la globalizzazione del mercato del lavoro con la conseguente riduzione della quota salari sul reddito nazionale e l’esigenza del sostegno globale alla domanda aggregata. In particolare Screpanti ritiene che gli scontri «inter-imperialisti» correnti – come fra Stati Uniti, Cina, Russia e Germania – siano il residuo di un passato lento a morire, il segno della resistenza delle classi dirigenti di alcuni grandi paesi agli effetti della globalizzazione e alla rinuncia alle proprie ambizioni. Il segno del futuro non è nel conflitto inter-imperiale o nel dominio di uno o più Stati, ma nell’impero del capitale multinazionale.

Screpanti discute l’innovatività della propria tesi rispetto alle vecchie teorie novecentesche dell’imperialismo, e l’argomenta nei quattro capitoli centrali del libro, dove si spiegano sia i modi con cui il grande capitale piega gli Stati al suo servizio, sia le cause economiche della formazione e della crescita (in dimensioni e numerosità) delle grandi imprese multinazionali. I processi di disciplinamento degli Stati sono organici, e passano per i mercati delle merci, della finanza e delle coscienze (ideologie), oltre che per gli interventi bellici condotti secondo il modello sheriff and posse (banda di nazioni armate guidate dagli Stati Uniti). Le crisi stesse, comprese quelle attuali, sono spiegate come processi di esplosione delle contraddizioni stato-mercato che si risolvono infine in azioni di disciplinamento della politica da parte del grande capitale multinazionale industriale e finanziario. Il lettore non risulta tuttavia pienamente convinto non tanto della tesi dello strapotere del nuovo imperialismo del capitale globale, quanto di come questo potere si coniughi con i persistenti scontri inter-imperialisti.

Screpanti ha certamente ragione nell’illustrare le varie tendenze in gioco. Ciò che forse manca, ma nessuno è ancora in grado di articolarlo bene, è un quadro completo di come queste forze si coniughino fra di loro: da un lato il capitale globale con la sua tendenza a spazzare via i retaggi nazionali (opportunamente la citazione di apertura è dal Manifesto del partito comunista del 1848), e dall’altro il persistente ruolo delle potenze imperiali. Quella che può apparire come una carenza è però anche uno stimolo a un’ulteriore riflessione su una tematica, l’intreccio Stato-mercato nell’epoca del capitalismo globale, assolutamente decisiva.

Tra locale e globale

Screpanti dedica poche pagine finali alla formazione di un proletariato globale che potrà nel lungo periodo mettere in crisi il capitalismo. Cesseranno infatti, secondo l’autore, le contraddizioni fra i proletariati del sud e del nord mentre viene meno la prospettiva del compromesso riformista, con i partiti socialdemocratici costretti a porsi al servizio del grande capitale se vogliono mantenere il potere. Non cesserà tuttavia, anzi sarà nel lungo periodo esacerbata, la contraddizione fra un proletariato progressivamente più impoverito e sfruttato e il capitale globale.

Non v’è dubbio che le tendenze messe in luce da Screpanti vendichino le previsioni del Manifesto del 1848. Contrariamente alle attese di Marx ed Engels, tuttavia, le lotte operaie nei due secoli passati hanno sempre avuto un respiro nazionale più che internazionalista. Proprio lo Stato nazionale – per cui si sono spesso battuti i movimenti socialisti indipendentisti – ha costituito il terreno non solo unico, ma ideale, per un effettivo avanzamento sociale. Oggi come allora, tuttavia, il capitale globale non potrà completamente fare a meno degli imperi nazionali, mentre le masse popolari non potranno fare a meno del terreno dello Stato nazionale per difendere o riguadagnare le proprie conquiste. Oggi come allora l’idea che il proletariato non ha nazione potrebbe rivelarsi molto prematura. Ma Screpanti la pensa diversamente e ritiene con Marx che nel futuro solo la formazione di un soggetto rivoluzionario internazionale potrà contrastare lo strapotere del capitale globale.