Non si è trattato di una sfida tra democrazia e tecnocrazia, bensì tra due concezioni di democrazia, tra due visioni politiche. Non è vero infatti che sia stata la troika a imporre l’austerità, sono stati i governi degli Stati – legittimamente eletti – a delegare alle istituzioni finanziarie il compito di attuare le misure economiche di stampo neoliberista volontariamente decise dagli Stati stessi in sede europea.

Visioni inconciliabili

I Trattati e i reiterati accordi tra i paesi membri dell’Unione europea (dal Six-Pack al Fiscal compact al Two-Pack) sono le fonti normative che hanno generato le misure di rigore europee. Il governo greco – anch’esso legittimamente eletto – chiede ora di cambiare, denuncia l’insuccesso delle misure di austerità sin qui seguite che hanno portato molti paesi ad un passo dal tracollo, hanno impedito la ripresa, non sono riuscite ad affrontare le questioni che strutturalmente caratterizzano la debolezza economica dei singoli paesi. In questo quadro c’è poi la questione specifica della Grecia, il cui debito è un ostacolo per ogni possibile ripresa del paese.

Ciò che ha impedito l’accordo tra i diciotto Stati dell’eurozona non è stato il debito, bensì le inconciliabili visioni di politica economica. È questa la vera questione che il governo greco e ora anche il suo popolo ci pongono.

Incamminarsi verso l’ignoto

Il No greco al memorandum dei creditori e all’ideologia da questo espresso rappresenta il rifiuto di un modello di sviluppo. Ci carica di responsabilità interrogandoci sulla nostra concezione di democrazia, sul rapporto tra diritti e mercato, sull’idea di società. Ci invita ad abbandonare il noto (le politiche sin qui seguite) per incamminarci verso l’ignoto (almeno in Europa: negli Stati uniti la ripresa c’è stata proprio grazie all’abbandono delle politiche recessive).

Una sfida straordinaria. Sapremo in grado di raccoglierla?

Quel che può dirsi e che non basteranno le astuzie o i tentativi di addolcire le politiche sin qui seguite. La Grecia ci ha mostrato che non si può puntare su un’«austerità espansiva», ma è necessario puntare ad una rottura di continuità.

Ciò vuol dire cambiare i Trattati e gli accordi che definiscono le politiche economiche e sociali tra Stati. Vuol dire riscoprire un’Europa politica e sociale, prendere sul serio quel che è pur scritto nel preambolo della Carte dei diritti dell’Unione europea («L’Unione pone la persona al centro della sua azione»), ma che è stato travolto dal dominio arrogante e disumano delle politiche di mercato.

È evidente che un’impresa così grande non è nella disponibilità di un solo paese o di un piccolo popolo, per quanto orgoglioso e consapevole possa essere. Ed è anche per questo che il referendum greco ci interroga direttamente e assegna ai popoli e a tutti gli Stati europei una responsabilità immensa.

Niente egoismi nazionali

L’obiettivo di cambiare i Trattati e far adottare politiche sociali alle istituzioni europee (comprese quelle finanziarie e bancarie) potrà essere raggiunto solo a seguito di una difficile e responsabile lotta politica da svolgere in Europa. Non si potrà concedere nulla al populismo, neppure a quello radicale che tanto alletta parte della sinistra. Non ci si potranno formare alleanze spurie con gli antieuropeisti, nazionalisti, gli egoismi nazionali di varia natura.

Non si potrà fare affidamento neppure sulle grandi socialdemocrazie, che potranno pur cambiare e alla fine dare una mano, ma solo se costrette. I paesi del sud d’Europa dovrebbero essere le più interessate a cambiare: oltre la Grecia, la Spagna. La vittoria di Podemos può essere un tassello decisivo in questa strategia. Poi il Portogallo, chissà che ne sarà dell’ondivaga Francia. E l’Italia?

La delegazione più folta

Se si guarda al nostro paese oggi non c’è da essere ottimisti. Non c’è nessuno che sia in grado di rappresentare con adeguata forza le istanze del cambiamento reale. Saremo anche pieni di buone intenzioni e, a volte, persino generosi. Ma c’è egualmente da disperare: la delegazione più folta che ha festeggiato la vittoria del referendum ad Atene era quella italiana. Per forza, ciascuno rappresentava se stesso! Per la Germania c’era la Linke, per la Spagna Podemos, per l’Irlanda Sinn Fein, e così via. Per l’Italia un esercito diviso di personalità disorganizzate e indistinte.

Ora veramente non c’è più tempo. Se noi italiani non sapremo rispondere alla sfida che è stata lanciata dalla Grecia rischiamo di compromettere una strategia di riscatto dei popoli europei. Un debito che poi non potremmo mai più restituire e il nostro default politico sarebbe totale.