Tutto si potrà dire alla fine tranne che la convention repubblicana sia stata convenzionale. Iniziata con la fronda degli irriducibili anti-Trump si è conclusa ieri con l’orchestrata investitura del magnate, un opportunista post-ideologico che in pochi mesi si è impadronito del partito fondato da Abraham Lincoln. In mezzo c’è stata la moglie di Trump, l’ex fotomodella slovena Melania, col suo discorso risultato poi plagiato nientemeno che da quello della “nemesi” Michelle Obama. E c’è stato il clamoroso intervento di Ted Cruz già arcirivale delle primarie che nel giorno in cui gli ex-avversari (Walker, Rubio, Gingrich) hanno reso l’onore delle armi al vincitore, si è rifiutato invece di dare l’endorsement previsto dal copione caricato sul “gobbo” ed è stato ricoperto di fischi dalla platea inferocita, poi obbligato a lasciare il palazzetto Quicken Loans sotto scorta.

Molto ci sarà da riflettere sulla portata storica di ciò che è accaduto fra lo scorso autunno e ieri sera. Talmente eccentriche sono le posizioni e lo stile di Donald Trump rispetto a quelle ufficiali del partito repubblicano  che la sua improbabile corsa avrebbe potuto, e secondo molti dovuto, prendere la forma di una  candidatura indipendente o addirittura di un terzo partito nazional-populista. Gli elettori americani hanno invece assistito ad un quasi esproprio di uno dei due poli del bipartitismo nazionale. “Quasi” poiché il sopravvento del movimento populista che ha travolto gli argini dell’establishment è stata in definitiva la conseguenza inevitabile della strumentalizzazione sistematica di una base per anni incitata a base di paure ed intolleranze che hanno dilaniato il paese.  Le famigerate “culture wars” sono iniziate sotto Reagan, architetto populista e artefice della alleanza con gli oltranzisti integralisti evangelici , frange antiabortiste e iper nazionalisti. Una strategia che ha attinto alle anomalie reazionarie estremiste di Goldwater, Wallace e Buchanan e divenuta il new normal repubblicano con Bush, i  neconservatori e Karl Rove, maestro nell’aizzare la bile popolare in anni elettorali, salvo “riporre i mostri in cantina” una volta ottenuto lo scopo.

Con gli effetti della globalizzazione sull’economia manifatturiera e l’ultima  devastante mazzata della bolla speculativa che ha costruito favolose fortune a Wall street sulle ipoteche blue collar, un vasto serbatoio di elettori esautorati ed inferociti da anni di retorica anti-sistema mai mantenuta, è stato pronto a seguire i proclami gutturali di rivincita proferiti da Donald Trump. I delegati di Cleveland, in maggior parte quadri e militanti di  lungo corso del vecchio partito, hanno dovuto farsene una ragione e non sorprendono dunque i sussulti. Come dimostra il caso Cruz, il Gop è al momento un partito  profondamente spaccato – almeno lo è sotterraneamente, sotto la scintillante cosmesi applicata alla convention.

Lo hanno dimostrato più di ogni cosa le defezioni: l’assenza di praticamente tutti i potentati del partito, dai Bush a Romney, McCain e John Kasich, governatore dell’Ohio con cui c’è stata una rottura piena. Il “padrone di casa” non si è nemmeno affacciato alla convention che tanto aveva fatto per portare a Cleveland. Un’inimicizia che potrebbe questa si costare cara a Trump vista l’importanza cruciale dello swing state Ohio nel calcolo del collegio elettorale a novembre. E alcuni repubblicani credono tuttora che Trump sia destinato a perdere quelle elezioni. È il calcolo di Cruz che spera successivamente di poter essere il solo a potersi vantare di aver alzato eroicamente il vessillo dell’ortodossia conservatrice nella casa di Trump.

 

 

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Con Mike Pence

 

Intanto il suo sabotaggio ha oscurato del tutto il discorso del candidato vicepresidente. Mike Pence è un ex democrat, cattolico convertito alla fede protestante evangelica e repubblicana. Un arciconservatore vecchio stile, accompagnato da una narrazione di  uomo semplice e pio assurto a guida di uno stato profondamente “rosso”. In Indiana ha presieduto ad un governo liberista ed illiberale la cui maggiore battaglia è stata contro i matrimoni gay e successivamente per l’obiezione di coscienza (rimasta nota per aver consentito alle pasticcerie di rifiutare la consegna di torte nuziali a coppie omosessuali.) La sua nomina, scelta si dice per volontà più dei figli che di Trump, sarebbe un gesto di conciliazione verso i tradizionalisti.)

Ma per molti versi delle ortodossie del partito Trump non sa che farsene . La sua crociata demagogica contro la “correttezza politica” gli ha vinto un montagna di elettori pronti a seguire la propria collera biliosa e paranoica nella distopia nostalgica che articola. Così nella Cleveland “espugnata” è andata in scena la rappresentazione  di un nuovo Gop, arcigno e vendicativo. Ossessionato dalla  narrazione conflittuale, la guerra da vincere contro l’estremismo islamico, dal militarismo e dall’ordine pubblico e dall’odio per Hillary che, come  alcuni qui hanno dichiarato apertamente, vorrebbero passata per le armi.

Un visione apocalittica e  amara che come innovazione propone il “ritorno al futuro” di un eccezionalismo americano – un nuovo american century ripetutamente invocato dal palco – degno del “più grande paese sulla terra”.  Al cuore del messaggio trumpista non ci sono programmi ma questo slogan viscerale e la promessa di tornare ad esserlo. Il suo è il trionfo si una politica post-logica, in cui esistono la grande muraglia sul confine o la promessa si “riprendersi gli impieghi rubati da Cina e Messico” – come se un presidente potesse azzerare la globalizzazione dei mercati innescata dall’ultracapitalismo. Fosse pure Trump, l’uomo che per citare Mike Pence non è «intimidito dal mondo».

La scelta del partito di stringersi attorno a lui sperando di cavalcare il suo carisma da bullo da reality fino alla casa bianca è un calcolo pericoloso, oltre che moralmente obbrobrioso. Rappresenta la scelta definitiva di una “guerra culturale” senza prigionieri in cui i repubblicani puntano sulla definitiva balcanizzazione del paese e si giocano il futuro. Giustificando l’affermazione di George W Bush che ha detto: «Comunuque vada a finire, l’ultimo  presidente repubblicano sarò stato io».