Il resto di niente – scriveva Enzo Striano nell’’omonimo romanzo su Eleonora de Fonseca Pimentel, protagonista della rivoluzione napoletana del 1799 – è una «dimensione più vera del reale», la «verità conquistata di fronte alla morte». Dal resto che si deve al niente – Eleonora fu impiccata, la rivoluzione giustiziata – può rinascere il tutto.

A questa metafora sembra ispirata la formula scelta da Giuseppe De Rita nella presentazione del 49esimo rapporto del Censis ieri al Cnel di Villa Lubin a Roma: l’Italia è la società dei resti.

In questo linguaggio immaginoso non c’è tuttavia una palingenesi. Viene descritto un «letargo esistenziale collettivo» in cui si vive dei resti del passato.

Questi resti condizionano l’avvenire in Italia. C’è il resto del mito della grande industria, della piccola impresa, dell’organizzazione complessa del fordismo, della lotta di classe o del primato della metropoli. Questo passato lascia nel presente un’economia sommersa e un lavoro autonomo senza diritti, il localismo dei distretti e dei borghi, l’empirismo del «consumatore sobrio» orfano della spensierata stagione degli anni Ottanta, quando il desiderio era consumare.

Oggi la realtà è un altra: si parla di «uomini indebitati».

Prima Craxi, poi Renzi

Nell’intreccio di dati statistici, ormai diventati un genere giornalistico, e percezioni rapsodiche dell’attualità, De Rita riconosce in Renzi un «rilancio del primato della politica» messa all’opera con «interventi tesi a incentivare la propensione imprenditoriale e il coinvolgimento collettivo rispetto al consolidamento della ripresa».

Il modello di riferimento è il «decisionismo: solo Craxi aveva avuto lo stesso coraggio». «Se fai l’atto coraggioso – ha osservato De Rita, parlando con i giornalisti – non puoi trasformare la decisione in comando e non puoi non avere una catena di comando che applichi quello che pensi». A proposito di resti del passato che riemergono.

Non tutto però sembra funzionare dal ponte di comando di Palazzo Chigi. Nel rapporto Censis il volontarismo renziano non mobilita la società. Il tasso di fiducia dei cittadini nelle istituzioni è al 9%. Ma le riforme vanno avanti come treni fino a cambiare la Costituzione. Oggi il primato della politica, è il primato di uno solo. O del suo cerchio magico: gli oligarchi tascabili di una stagione.

Nella società, invece, trionfa «l’interesse particolare, il soggettivismo, l’egoismo individuale e non maturano valori collettivi e interessi comuni». Il paese dei resti è stato lasciato da un numero doppio di persone negli ultimi sette anni: da 51.113 a 136.328, mai così tanti dagli anni Settanta.

La politica non stimola la «coesione sociale», non rimedia al «virus della sconnessione», è autoreferenziale quando si lancia nel ballo dei decimali tra lo 0,8 o lo 0,9% del Pil. «Alla fine è più interessante capire perché gli italiani hanno riconquistato il primato del mercato del vino» chiosa De Rita.

Retoriche da start up

A chi resta viene ammannita la retorica delle «start up», il sogno del successo formato piccolo genio: hai un’idea, la vendi, vivrai di rendita. Qui non c’è innovazione sociale. Questo è il sogno di vivere con i resti del capitale finanziario. Ma come ogni retorica, anche questa ha una base di realtà. Il Censis registra un primato del nostro paese: tra i giovani tra i 20 e i 34 anni, 941 mila sarebbero i lavoratori autonomi o freelance. Un dato non trascurabile: 849 mila sono gli inglesi, 528 mila i tedeschi.

Sono tutti «auto-imprenditori», potenziali Mrs e Mr Facebook? Difficile crederlo. Oggi si diventa freelance per necessità: la partita Iva è il nuovo strumento dell’(auto)sfruttamento. E tuttavia è anche il sintomo di una ricerca di libertà sul mercato, e nel lavoro in cui si riversano le «capacità inventive, individuali e collettive» riscontrate dal Censis.

Il nuovo lavoro autonomo è un lavoro, prima di essere impresa; non è solo riuscita personale, è ricerca di una cittadinanza. Ha bisogno di reddito, tutele, welfare, spazi. Non è il resto di qualcosa, è il tutto che emerge dal niente.

Il non detto della sharing economy

In basso ci si organizza. Il rapporto Censis coglie l’esigenza di “disintermediazione” sociale, economica, politica, burocratica. Con questa espressione s’intende l’aspirazione a liberarsi dalla burocrazia dello Stato e dalle pastoie di un mercato bloccato da monopoli e paternalismi di ogni genere.

In questo quadro il rapporto elenca alcune pratiche emerse nella sharing economy.

Ad esempio, il coworking: il lavoro dei freelance in spazi condivisi. Nell’ultimo anno avrebbe coinvolto un milione e mezzo di occupati, il 3% della popolazione; il 5% tra i “giovani”. Si viaggia con BlaBlaCar per non pagare un mutuo a Trenitalia. Così il car sharing, per evitare multe, assicurazioni e bolli. C’è il couchsurfing, la condivisione di posti letto su piattaforme web, un modo di viaggiare che coinvolge il 2,5% tra i 18 e i 34 anni. Piccoli numeri per pratiche diffuse.

Sarebbe interessante capire quanti italiani scelgano di condividere un appartamento su Airbnb perché non possono pagare un affitto o viaggiare in condivisione perché non possono permettersi un mezzo proprio.

Il Censis annota: le famiglie mettono a reddito il patrimonio immobiliare: sono 560 mila i nuovi bed&breakfast, un fatturato da 6 miliardi.  Il non detto della sharing – al tempo di Uber – è la povertà del lavoro e dei redditi. E’ la ricchezza della rendita. 

Ripresa, ma quale?

Il clima economico sembra volgere al bello, ma restano i poveri e disoccupati. Questa società «in letargo» coltiva la passione per i paradossi, una conseguenza della «crescita anemica» che non produce lavoro fisso con redditi dignitosi. Il Censis la definisce «ripresa selettiva».

Ecco i dati. Il tasso di occupazione è sceso al 58,1% dal 2008 al primo semestre 2015, uno dei più bassi d’Europa, mentre gli immigrati sono più disoccupati degli italiani: il 17,2% (483 mila, contro i 250 mila del 2010) contro il 12%. Dal 2008 continua l’aumento dei titolari d’impresa stranieri. In questo aumento il Censis ci vede «un cammino veloce verso l’integrazione» e il darsi di un nuovo «ceto medio» sul modello delle «inner cities» londinesi o delle «banlieue» francesi.

Per la prima volta cresce la quota delle famiglie che hanno aumentato la capacità di spesa (il 25,6%), ma ci sono cinque milioni le famiglie che non riescono a coprire tutte le spese con il proprio reddito. Crolla l’occupazione giovanile, il tasso dei senza lavoro tra i 15 e i 24 anni è raddoppiato tra il 2008-14. Sono loro i più colpiti, insieme alle donne: in sei anni il tasso di disoccupazione è arrivato al 42,7% nel 2014 per poi diminuire di 1,4 punti quest’anno». L’esclusione si cronicizza: aumentano inattivi e Neet. Cresce la sottoccupazione che riguarda 783 mila persone, il part time involontario (2,7 milioni). In cassa integrazione ci sono 250 mila occupati. Rispetto ai livelli pre-crisi, per il Censis mancano all’appello 551 mila posti.

Disastro Sanità

Più di quattro italiani su dieci pensano che la sanità stia peggiorando, il 64% al Sud. Più della metà pensa che il Servizio sanitario regionale sia inadeguato, l’83% nel Mezzogiorno. I cittadini pagano di tasca propria le spese per un’assistenza pubblica che non c’è: nel privato una risonanza magnetica costa 142 euro (attesa di 5 giorni), con il ticket si pagano 63 euro con 74 giorni di attesa.

Costi insostenibili per famiglie che non arrivano a fine mese, una tragedia per chi ha un familiare non autosufficiente (tre milioni). Si usano i risparmi, fino a vendere casa o indebitarsi.

Il disastro è prodotto dai tagli, denunciano sindacati e associazioni che faranno sciopero il 16 dicembre contro gli 8 miliardi che il governo taglierà entro il 2019.

Ciò che resta della sanità pubblica sembra essere intollerabile per i tagliatori di professione. La programmatica intenzione di annientare l’ultimo resto, virtuoso, di un passato rivela che in Italia non può rinascere un bel niente. Il messaggio è sempre lo stesso in questo paese brutale: si salvi chi può.