Lo sguardo di due donne sulla storia iraniana. Due generazioni, due vite, due forme di esilio a confronto per raccontare la memoria del grande paese asiatico, ma anche per immaginare un futuro di libertà. In L’attrice di Teheran (Edizioni e/o, pp. 300, euro 19,50), Nahal Tajadod prende spunto dalla vicenda dell’attrice Golshifteh Farahani, «bandita» dalle autorità della Repubblica Islamica dopo aver partecipato nel 2008 al film di Ridley Scott Nessuna verità e aver posato a seno nudo nel 2012 per una campagna contro gli abusi sulle donne, per raccontare l’incontro tra due diverse visioni dell’Iran.

Tajadod, nata nel 1960, figlia di intellettuali, suo padre partecipò alla Rivoluzione costituzionale del 1906, ha lasciato la Teheran dello Scià Reza Pahlevi nel 1977 per studiare lingue e religioni orientali a Parigi, è un’esperta internazionale del pensiero di Mani e del sufismo di Rumi, e ha all’attivo un primo romanzo, Passaporto all’iraniana, pubblicato nel 2008 anche nel nostro paese. Farahani, la sua interlocutrice che nel libro assume l’identità di Sheyda, è nata nel 1979, l’anno della Rivoluzione Islamica, è diventata attrice conoscendo tutte le difficoltà e le limitazioni che il regime degli Ayatollah pone all’espressione artistica, in particolare delle donne.

Dal loro incontro è nato una sorta di diario ricco di emozioni e colpi di scena, a un tempo intimo e corale, mai rassegnato anche di fronte all’imminenza di scelte decisive per la vita delle protagoniste. Un libro che ricostruisce la storia dell’Iran, la vita quotidiana nella Teheran di oggi come in quella degli anni Settanta, ma che soprattutto rivolge uno sguardo complice quanto alla possibilità di un avvenire diverso per le donne iraniane.

Nahal Tajadod ha presentato L’attrice di Teheran al Salone del libro di Torino domenica 11 maggio insieme alla studiosa Farian Sabahi.

«L’attrice di Teheran» è soprattutto un romanzo sull’esilio. Anche se protagoniste ne sono due forme di esilio tra loro molto lontane. Solo un’apparente contraddizione?

Qualcosa di più: un modo per riflettere su di sé mentre si osserva la realtà iraniana. In effetti, mentre io ho ancora la possibilità di recarmi in Iran, Sheyda è stata bandita dal paese e rischia di essere arrestata e processata per oltraggio alla religione se ci torna. Perciò, malgrado ci siamo conosciute a Parigi e abbiamo lavorato insieme a questo libro in Francia, vale a dire nel paese che abbiamo scelto entrambe per il nostro esilio, non posso dire che la nostra situazione sia uguale. Lei ormai parla solo di ciò che ricorda di un paese che non la riconosce più e non è più disposto ad accoglierla, mentre io rifletto su ciò che ho visto cambiare sotto i miei occhi, ma da lontano, in una realtà che però non mi è più preclusa. Entrambe ci misuriamo con una distanza, affettiva, emotiva, culturale, ma la misura del nostro esilio dall’Iran non potrebbe essere più lontana l’una dall’altra.

È ricomponendo idealmente le vostre differenti esperienze che ha preso corpo il libro….

Non ne eravamo consapevoli all’inizio, ma credo che le cose siano andate almeno in parte così. Io e Shyeda apparteniamo a due generazioni diverse; abbiamo vissuto un’infanzia e una giovinezza molto differenti, ma dal nostro incontro e dal nostro lavoro comune è nato un ritratto convincente del paese che entrambe, malgrado tutto, amiamo profondamente. Il fatto che io sia nata nel 1960 e abbia lasciato l’Iran nel 1977 quando era ancora dominato dallo Scià e che da allora non abbia più vissuto stabilmente a Teheran, fa di me una sorta di testimone di un paese che non c’è più.

Sheyda, al contrario, è nata nel 1979, e non ha conosciuto che il governo della Repubblica islamica fondata da Khomeini. Eppure, fin dal nostro primo incontro è accaduto qualcosa di molto strano. Io che mi aspettavo di farmi raccontare da lei l’Iran che non ho mai conosciuto, ho finito per trovarmi invece nel ruolo inatteso del narratore: sia perché le parlavo di un’epoca che il regime degli Ayatollah ha cercato di cancellare con ogni mezzo, sia perché, potendo ancora entrare nel paese, ho fonti di prima mano anche su ciò che sta accadendo adesso. Più che un dialogo, il nostro è diventato una sorta di processo creativo vivente, l’una ha appreso dall’altra e insieme abbiamo ricostruito i frammenti di una fotografia di Teheran che la Storia aveva ridotto in mille pezzi.

Sheyda potrebbe essere sua figlia, eppure nel libro lei la paragona a sua madre o addirittura a sua nonna, spiegando come questa ragazza abbia dovuto misurarsi in Iran con una società dominata totalmente dagli uomini. La sua esperienza è stata diversa?

Llei ha l’età per poter essere mia figlia, ma la vita che ha condotto nella Repubblica Islamica è più simile a quella che avevano vissuto le donne iraniane di parecchie generazioni fa: più che mia madre, addirittura mia nonna o la mia bisnonna. Dopo la rivoluzione del 1979, la violenta islamizzazione della società imposta dai seguaci di Khomeini ha fatto riemergere elementi che erano stati superati da tempo. Un solo esempio può bastare, quello dell’uso del cosiddetto «velo islamico». Finché ho vissuto a Teheran non ho mai dovuto indossarlo e nemmeno mia madre lo usava. Il padre dell’ultimo Scià, aveva già abolito l’obbligo del velo nel 1936, ma le autorità religiose lo hanno ristabilito dopo il 1979.

Così, il paradosso è che se cerco con la memoria l’immagine di donne velate nella mia famiglia, devo tornare all’epoca di mia nonna o di sua madre. Mentre invece nella vita di Sheyda, come per tutte le donne iraniane di oggi, l’esperienza, obbligatoria, del velo è qualcosa di quotidiano. Eppure, il dominio maschile, imposto attraverso la religione, è oggi uno dei maggiori problemi che attraversa l’Iran. Proprio per questo la chiave di un cambiamento reale della situazione è nelle mani di giovani donne come Sheyda.

Dalle sue parole si potrebbe concludere che l’epoca dello Scià, dove il benessere e la modernità erano riservati ad un’élite estremamente circoscritta, fosse da preferire a quando accaduto in Iran dopo il 1979. Nel romanzo, anche ispirandosi ai suoi studi sulla cultura e la religione pre-islamiche, lei arriva però a conclusioni diverse sul futuro del paese. Cosa potrà accadere?

Per parlare del futuro del mio paese faccio riferimento ai miei studi sul manicheismo, che al contrario di quanto si è soliti credere sosteneva la coesistenza, nella Storia come nella vita dei singoli, di fasi di «luce» e di «tenebra».

Penso che in Iran all’epoca dello Scià si sia posto il problema della separazione tra la società tradizionale, la religione e lo Stato. Lo si è fatto però senza democrazia e in modo autoritario. La rivoluzione del 1979 ha utilizzato il malessere di una gran parte della popolazione per riportare al centro delle istituzioni le norme islamiche. Il risultato è stato un altro regime autoritario, ma anche lo sviluppo, per la prima volta nel paese, di una vera società civile. Perciò oggi è in seno alla stessa Repubblica Islamica che sono nati gli anticorpi, e penso soprattutto ai giovani, agli intellettuali e alle donne, per il superamento del regime. Ci vorrà del tempo, ma il futuro di un Iran libero si sta già costruendo attraverso l’esperienza e le battaglie di donne come Sheyda.