Un appassionato e partigiano elogio della filosofia è ciò che, principalmente, muove il saggio di Rocco Ronchi titolato Gilles Deleuze Credere nel reale (Feltrinelli, pp. 137, euro 14,00). L’idea è che se oggi, «soprattutto i più giovani» trovano «in un pensiero così complesso, scostante, spesso francamente incomprensibile» le ragioni che li portano «a scegliere la via della filosofia», è perché «Deleuze, nella seconda metà del secolo , è stato tra i pochi a difendere l’onore della filosofia», opponendosi a coloro che da più parti ne auspicavano la «dismissione generalizzata». Lo stile di pensiero del filosofo francese viene così messo in esplicita opposizione alle correnti novecentesche eredi di Heidegger e di Wittgenstein, che in modi talvolta anche radicalmente differenti hanno dichiarato la fine della filosofia.

Il metodo e lo stile con cui Ronchi affronta il pensiero di Deleuze non sono quelli dello storico, che descrive il suo oggetto inserendolo nel contesto suo proprio perché lo considera compiuto e finito, cioè morto. La prospettiva, ispirata dallo stesso Deleuze, è piuttosto quella di chi vede nella filosofia «non un fatto compiuto ma un atto», a cui ci si può accostare solo con la pretesa di prolungarne la linea della vita. È perciò che il testo in questione non è affatto una semplice introduzione al pensiero di Deleuze, ma – in linea con lo spirito della collana diretta da Massimo Recalcati, che mira a «mettere in luce l’eredità come un resto vivo e mai del tutto esauribile» – è esso stesso un testo di filosofia.

Il paesaggio disegnato da Ronchi non è di quelli che si è soliti associare al filosofo francese. E, dunque, i nomi a cui per lo più si fa riferimento non sono (soltanto) quelli di Spinoza, Bergson, Nietzsche; a venire convocati sono preferibilmente Platone e la tradizione neo-platonica (soprattutto Cusano e Bruno). Allo stesso tempo, Ronchi mostra l’importanza dell’esperienza pura di James e della filosofia processuale di Whitehead e nomina «Giovanni Gentile, che per tanti aspetti è così prossimo a Deleuze». L’atmosfera è insomma inconsueta: il testo si apre sulla questione controversa della partecipazione politica di Deleuze, e dunque sul suo rapporto con il ’68, la cui immagine – così come Ronchi la disegna – non non è soltanto quella di una rivolta anti-autoritaria (né, ancor meno, la prefigurazione di un consumistico desiderio post- o iper-moderno), ma un evento che mira a risvegliare la modernità – come disse Foucault – dal «sonno antropologico» nel quale è caduta. Non solo, dunque, fatto sociale e politico ma anche e soprattutto una rivoluzione nel campo del sapere, il ’68 è definito soprattutto come un anti-umanismo che mira a destituire la «tesi, cara ai moderni, dell’eccezione umana, della sua differenza radicale rispetto al resto della natura».

Gli eventi del maggio francese sarebbero così la traduzione politica di un’affermazione «metafisica»: l’immanenza o «l’univocità del reale», l’uguaglianza di tutte le cose, l’anarchia incoronata contro l’immagine dell’uomo come re della creazione. È perciò, fra l’altro, che all’abiura intellettuale del ’68 si accompagna spesso il favore verso la formula pasoliniana della «mutazione antropologica»: perché l’uomo che tramontando torna a essere una parte della natura o una macchina tra altre macchine desideranti rivelerebbe l’avvento di un’epoca barbarica, funzionale alle logiche del tardo capitalismo nonché foriera di una nuova forma di fascismo (più pericoloso, come si dice con cattivo gusto, del fascismo storico).

Fin dall’inizio, Ronchi spiega come uno dei nuclei centrali del pensiero di Deleuze consista nella riflessione su ciò che significa pensare: su quella che già in Differenza e ripetizione viene chiamata «immagine del pensiero». La filosofia ha inizio, effettivamente, quando diventa capace di liberarsi dai presupposti che determinano in anticipo l’atto del pensare: non solo i presupposti oggettivi, le opinioni, i cliché ma soprattutto i presupposti soggettivi, e innanzitutto il presupposto umanistico per eccellenza: che il pensiero sia un prodotto e dunque una proprietà esclusivamente umana. Fondata su questo presupposto, la filosofia non potrebbe che perdere di vista tutto ciò che non rientra nel cerchio antropologico, tutto quanto l’occhio dell’uomo non è capace di vedere. L’intento di Deleuze è rompere quel cerchio per istituire una presa diretta tra il pensiero e le forze e le forme che ignorano l’uomo almeno quanto l’uomo le ignora.

Su questa base si articola un percorso in cinque fasi (corrispondenti ai cinque capitoli nei quali si divide il testo: Etica, Metodo, Ontologia, Cinema, Psicanalisi), che sono altrettante variazioni su un unico tema fondamentale: l’idea che quello di Deleuze sia un pensiero non della potenza, ma dell’atto, non dell’essenza, ma dell’esistenza. Che questo sia il nucleo della lettura di Ronchi lo testimonia sia il modo in cui definisce l’univocità del reale («ad accomunare la varietà illimitata degli enti è il fatto semplicissimo, ma filosoficamente cruciale che tutti sono»), sia l’importanza che nella sua lettura assume il Reale (scritto spesso, lacanianamente, con la maiuscola), inteso come «emergenza brusca» e assimilato (talvolta un po’ frettolosamente) a quanto Deleuze chiama «evento». Ne viene fuori la singolare immagine di un pensatore «esistenzialista» (almeno quanto a prospettiva ontologica), un Deleuze fedele erede del suo maestro Sartre, tutto intento ad affermare il carattere contingente, imprevedibile e inappropriabile, di ciò che accade.