Secondo un vecchio adagio liberale la libertà di ognuno finisce dove comincia quella degli altri, ovvero il limite della libertà personale è fissato là dove si reca danno ad altri.

Questa definizione puramente negativa, incentrata su un’idea individualistica dell’umano, incapace di contenere la complessità dell’esperienza, è stata criticata dal femminismo in nome di una visione più ricca della libertà; tuttavia, di fronte all’appello contro l’utero in affitto lanciato da “Se Non Ora Quando – Libere”, si può tornare a quell’antico principio.

Ci si può tornare per quel che ha in sé di valido, e chiedere: dov’è il danno della maternità surrogata, quello che giustifica la richiesta di vietare universalmente la pratica?

Oppositrici e oppositori della “gestazione per altri” menzionano i danni ai minori che derivano dalle nascite da madre surrogata. Ma credo che su questo fronte si debba adottare almeno un po’ di cautela, non essendoci chiare evidenze a riguardo. Uno studio di alcuni anni fa del Center for Family Research dell’Università di Cambridge, per esempio, non riportava alcuna differenza nello sviluppo cognitivo e socio-emotivo – almeno per i primi anni di vita – tra bambini nati attraverso la surrogacy e bambini concepiti in modo naturale. La materia è da poco diventata oggetto di studi e non consente ad oggi posizionamenti tanto netti. Mentre è noto quanta importanza abbiano, nello sviluppo dei minori, la qualità delle relazioni genitori-figli, dove la genitorialità sembra contare assai più del legame con chi ci ha partoriti.

L’altra presunta vittima della pratica della surrogacy è la madre “portatrice”. Qui il quadro si fa molto complesso, perché accanto all’esperienza di donne del Nord del mondo che dichiarano con serenità di aver intrapreso senza costrizione o necessità questo percorso di gestazione per altri per le ragioni, c’è il caso di donne povere o poverissime (specialmente nel Sud del mondo) che si mettono a disposizione per assenza di alternative o addirittura perché forzate dai propri familiari. Allora non sarebbe meglio denunciare che le madri surrogate (come tante le donne, in una pluralità di condizioni della vita) possono essere oggetto di abusi, anziché negare che possa esserci autonomia e consapevolezza nella scelta di chi decide di portare avanti la gravidanza per qualcun altro?

Le donne non sono uteri da affittare, sanno pensare e decidere per se stesse. Dobbiamo interrogarci sulle condizioni in cui maturano le scelte, ma questo non ci autorizza a silenziare le voci di chi ci racconta una storia che non riusciamo a condividere. Com’è che si diceva? La prima parola e l’ultima sul proprio corpo spetta a ogni donna?

Certo dobbiamo considerare che le pratiche hanno significati che non sono nella piena disponibilità dei soggetti che le mettono in atto. Altrimenti detto, non è solo il soggetto che agisce un certo comportamento a deciderne il significato, specialmente se i comportamenti in questione rimandano strutture di potere pervasive come quelle del patriarcato, nello specifico la disponibilità del corpo delle donne a scopo riproduttivo. Ma nemmeno è possibile schiacciare il soggetto, la donna in questione, sotto il peso del significato che il suo agire rischia di rivestire in un certo ordinamento simbolico. Di questo passo, altrimenti, sarebbero innumerevoli i comportamenti da vietare per legge.

Io, personalmente, non chiederei mai a un’altra donna di fare un figlio per me. Non credo nella necessità di avere un figlio a ogni condizione. Per la stessa ragione non credo – ma non posso escluderlo del tutto se fosse per persone vicine e amate – che vorrei portare avanti una gestazione per altri. Ma questo è il mio sentire, e ci sono infinite altre cose che non farei e che altre donne invece scelgono in piena autonomia e con perfetta consapevolezza. Dunque è questo mio sentire singolare un buon motivo per proporre l’introduzione di un reato universale? Dev’essere il diritto penale a farsi interprete della nostra idea soggettiva di dignità?