Un messaggio politico nei suoi testi? Canzoni impegnate? No, neppure quelle degli anni 60 e 70. Anche di recente Bob Dylan ha voluto rimarcare di essere solo un artista. Sentite cosa dice nel suo unico discorso pubblico, il 7 febbraio 2015, quando accetta il Grammy, il premio che, per chi fa musica, vale più di un Nobel.

«Be’, sapete, pensavo solo di fare qualcosa di naturale, ma fin dall’inizio, per qualche ragione, le mie canzoni dividevano. Dividevano le persone. Non ho mai capito perché. A certi facevano arrabbiare, ad altri piacevano. Non so perché le mie canzoni avessero detrattori e sostenitori. Era una situazione strana nella quale buttare le canzoni ma io l’ho fatto comunque. L’ultima cosa a cui pensassi era a chi interessava che canzone stessi scrivendo. Le stavo semplicemente scrivendo. Non pensavo di fare qualcosa di diverso. Pensavo solo che stavo stendendo un verso».

Che importa, in fondo, fare di Dylan un campione dell’impegno contro la guerra, contro il Vietnam, il campione dell’ «altra America»? Lo sono le sue canzoni. Che infatti «dividevano». Erano tutt’altro che canzoni neutre. Di buoni sentimenti. D’altra parte, è proprio di un grande artista che la sua produzione lo trascenda e finisca per appartenere solo a chi gode della sua arte.

Di fatto, la lunga carriera di Dylan, nelle sue varie e diverse fasi, anche in quelle più intimistiche, racconta un’America che non è l’America di Washington, della Casa bianca, del Congresso. Delle lobby. L’opposto dell’America spesso e ovunque, a volte anche in modo caricaturale, detestata ancor più che temuta, di certo non amata.

E invece l’America cantata da Dylan è l’America che sa essere universale e che sa essere positiva, umana, un’America che, in qualsiasi parte del mondo, chiunque può cantare nelle note di Dylan. Per questo merita il premio Nobel.
Lo riceve mentre l’America torna a far parlare di sé come di un gigante impazzito, senza bussola, il paese delle cento Gaza, – i ghetti neri in fiamme – il paese delle armi da fuoco senza regole che fanno diversi morti al giorno, il paese in preda a un finale di corsa presidenziale, che potrebbe perfino concludersi con la vittoria di un candidato come Donald Trump.

Si è spesso pensato, a torto o a ragione, che certi premi Nobel sono assegnati più per ragioni politiche che per motivi strettamente artistici. Nel caso del premio attribuito a Dylan è difficile vederci un simile «sottotesto». Eppure c’è di fatto molta «politica» nella curiosa coincidenza tra un riconoscimento, da molti considerato anomalo, perché Dylan non è strettamente un poeta, e la concitata fase conclusiva della campagna presidenziale americana.

È come se il Nobel a Dylan richiamasse l’America a conservare le ragioni di fondo che hanno portato un africano americano, figlio di un immigrato, a diventare presidente degli Stati Uniti. Non c’è bisogno di idealizzare la presidenza Obama per capirne la portata – per differenza – in rapporto al fatto che essa potrebbe essere seguita e soppiantata da un’amministrazione che ne annulla anche il suo significato più profondo, dovesse vincere un personaggio come Trump.

Ma il premio è anche considerato, al di là delle intenzioni della giuria del Nobel, un messaggio a Hillary Clinton. Perché la sua eventuale vittoria non sia l’inizio di una nuova fase di interventismo americano. Non che l’amministrazione Obama sia stata con le mani in mano sul fronte militare, ma ha dato anche molti segnali di cambiamento di rotta in relazione alle avventure delle passate amministrazioni.

Ecco, l’importante è che la presidenza Obama – nei suoi aspetti simbolici ma anche in diversi tratti politici innovativi – non sia solo una parentesi tra due fasi della storia recente americana, quella delle guerre dei Bush e quella che minaccia una vittoria di Trump o una presidenza aggressiva di Clinton.

Il Nobel a Dylan è un premio alla sua produzione artistica, ma anche all’America che noi tutti vorremmo, anche i suoi nemici politici, e che rischia di essere sopraffatta da un ritorno ai suoi tempi peggiori.