Che il Pd nella fase della sua dissoluzione sarebbe finito, insieme al suo “facilitatore” Napolitano, in bocca a Berlusconi, fino a subirne le imposizioni più oscene, era prevedibile fin da quando aveva scelto Monti invece di una verifica elettorale che lo vedeva, allora sì, sicuramente vincente. Gli ultimi due anni hanno così messo in luce che il Pd non è un partito di governo. Perché non è, e da tempo, in grado di assumersi la responsabilità di governare, se non in compagnia di forze che possano essere presentate come “imposte dalle circostanze”. Da quando è scoppiata la crisi il Pd sa – lo sa la sua nomenklatura – di non potersi addossare da solo la paternità della “macelleria sociale” imposta dal patto di stabilità e dall’assetto economico di un mondo dominato dalla grande finanza. Non ha né la cultura né le capacità per imboccare strade alternative a questo presunto “stato di necessità”.

Non ne ha la cultura perché ha da tempo rinunciato a ritenere – se mai lo ha fatto – che “un altro mondo è possibile”. Il Pd considera inappellabile, quali che ne siano le conseguenze, il dogma thatcheriano: “Non c’è alternativa” al dominio incontrastato dei mercati, cioè della finanza, cioè a un mondo ormai privo tanto di un rapporto diretto tra capitale e lavoro (la finanza comanda per interposte figure) quanto di qualsiasi mediazione.

Una cultura alternativa vuol dire innanzitutto una prospettiva radicalmente diversa da quella attuale per l’Europa, che è il vero teatro dove si gioca il nostro futuro: un’Europa dei popoli, che rimetta nelle mani della cittadinanza attiva le scelte fondamentali di politica economica e sociale (ed estera, là dove si decide della pace e delle guerre); l’esatto opposto della subordinazione alle regole attuali, sempre dettate dall’alta finanza anche quando si mascherano dietro a “egoismi nazionali” e populismi che stanno portando la costruzione europea allo sfascio.

Poi vuol dire sostenibilità ambientale, cioè conversione ecologica delle produzioni e degli stili di vita: una vera politica industriale – sempre invocata “a sinistra”; ma mai specificata – ispirata al rispetto delle compatibilità ambientali (innanzitutto nelle politiche energetiche, nella gestione del territorio, delle risorse e dei rifiuti); a obiettivi di rilocalizzazione delle produzioni e di valorizzazione delle risorse naturali, culturali e umane di ogni singolo contesto.

Vuol dire infine mettere al centro della politica i diritti: quelli delle persone dove sono in gioco nascita e morte, ma anche e soprattutto tutela della vita: non costringere a nascere chi non è stato desiderato e impedire di morire a chi non ha altra prospettiva, ma difesa della salute, diritto a un reddito, a una casa, a una famiglia, ad avere dei figli anche quando si è senza lavoro; poi diritti dei cittadini a un contrasto vero alla criminalità con cui tutto il nostro ceto dirigente politico e imprenditoriale si è abituato a convivere, se non a praticarla direttamente; e diritto dei lavoratori, nelle imprese e nel loro rapporto con il mercato del lavoro, a decidere le condizioni del proprio impegno; infine, diritto per tutti a una partecipazione effettiva alla vita pubblica: cioè democrazia partecipata.

Il Pd non ha la capacità di perseguire tutto ciò proprio perché un’alternativa alle dinamiche attuali del sistema economico esige la partecipazione attiva della cittadinanza a tutte le principali scelte; una partecipazione incompatibile con il mantenimento delle posizioni di potere, grandi, piccole o anche solo presunte, di chi se le è accaparrate con la “politica”. La democrazia partecipativa non è un’utopia, ma promuoverla è arduo soprattutto perché molti considerano una “perdita di tempo” vedere che le loro decisioni non vengono mai rispettate. Per esempio, sono ventitré anni che gli abitanti della Valle di Susa si oppongono al Tav; se la loro lotta è diventata un esempio di costanza – ma anche di crescita politica e umana – per tutto il paese, tutti constatano anche che non ha smosso di un dito la determinazione di tanti governi, e soprattutto del Pd, a violare in ogni modo la loro volontà: con la disinformazione, la calunnia, la persecuzione giudiziaria, la militarizzazione, le alleanze con Berlusconi; anche a costo di perdere il governo della Regione (proprio là, infatti, e proprio per questo, si sono svolte le prove generali delle “larghe intese”). Oppure, la maggioranza assoluta degli elettori italiani si è espressa contro la privatizzazione dell’acqua e dei servizi pubblici locali con un referendum; ma non era passato un giorno che già il Pd nelle amministrazioni locali e nelle partecipate discettava di come aggirare quel divieto, spianando la strada a ben quattro leggi – tutte controfirmate da Napolitano; e la quarta anche dopo che la Corte costituzionale le aveva giudicate illegittime – per aggirare la volontà degli elettori.

E nelle ultime elezioni tre quarti dell’elettorato italiano, con l’astensione, il voto a Cinque stelle e quello al centrosinistra (presentatosi in frontale contrapposizione a Berlusconi) hanno espresso la scelta di farla finita con il caimano e la sua corte: per poi ritrovarselo vero padrone dell’operato e dei destini del governo. Ma gli esempi si potrebbero moltiplicare.

La costruzione di una forza in grado di riaprire la prospettiva di un cambiamento radicale è l’unica risposta possibile al drammatico aumento della povertà, della disoccupazione, della disgregazione del tessuto produttivo, all’azzeramento della democrazia; ma deve fare i conti con questo contesto. Deve innanzitutto riaprire una prospettiva in campo praticabile sul terreno culturale: gli elementi per farlo ormai ci sono tutti: in ambito scientifico e tecnico come nel recupero dei saperi tradizionali e nelle mille buone pratiche; ma questi elementi hanno bisogno di essere combinati – senza presumere di poterne fare una “sintesi” – e valorizzati in tutte le loro potenzialità. E poi diffusi; la cultura mainstream li avversa e li ignora; ma quello che propone alla fine non fa che confluire tutto nel grande alveo del berlusconismo: che non è una prerogativa esclusiva di casa nostra, ma una “cultura” che sta dilagando, insieme al populismo, in tutta l’Europa.

Ma soprattutto le mille pratiche sociali e di lotta in corso devono riuscire a ricomporsi in un fronte comune: nessuno può farlo al posto loro; o sovrapponendosi a loro; o evitando di fare i conti con il loro protagonismo. Non ci sono scorciatoie, ma le occasioni per promuovere queste aggregazioni non vanno trascurati. Le scorse elezioni avrebbero potuto promuovere un piccolo punto di riferimento a queste forze sociali e culturali disperse: cambiaresipuò era nato per questo. A strangolarlo, al di là della debolezza intrinseca a un esperimento affrettato, ci ha pensato la protervia di organismi ormai morti raccolti intorno ad Antonio Ingroia.

Oggi, nella scadenza del 26-27 maggio, molte forze che fanno riferimento a un lavoro sul territorio, alla prospettiva di una sua ricomposizione programmatica, e senza riciclare vecchie sigle e alleanze, ritentano, su basi più solide perché più direttamente legate al lavoro svolto per anni sul territorio, di offrire a tutti un punto di riferimento non solo locale. Sono liste di cittadinanza e candidati sindaco – Sandro Medici con Repubblica Romana, Auletta con “Una città in Comune” a Pisa, Laura Vigni con “Sinistra per Siena” e in generale alla Rete dei Comuni Solidali – radicalmente alternative alla riproposizione di una prospettiva che non vede altra possibilità di progresso se non nel cercare di condizionare “in qualche modo” il Pd: una fatica di Sisifo. A queste liste è affidato un passo piccolo ma importante su una strada difficile ma irrinunciabile.