Vulnerabilità e volontà di potenza sono due sentimenti originari, ma sono anche due risposte al terribile evento della morte vissuto come spossessamento, come impossibilità a superare un limite già dato, e che ci espropria della nostra stessa vita, del corpo stesso che abitiamo. Questa consapevolezza è l’antefatto dal quale muove il libro di Roberto Gramiccia Elogio della fragilità (Mimesis edizioni, pp. 130, euro 12).

Il volume si presenta nella forma di un saggio sui generis, ma è, soprattutto, l’autobiografia di chi nato agli inizi degli anni Cinquanta, scopre precocemente un impegno politico in continuità con i modelli resistenziali. Chi scrive fa parte di quella generazione squassata dai venti del Sessantotto che è capace di apprezzarne grandezza e limiti. L’autore fa dunque parte di una generazione protesa a costruire un’egemonia della classe operaia e del partito che ne raccoglieva i maggiori consensi – il Pci. Sappiamo come è andata, fino all’estinzione di quel Partito e alla cupa chiusura di una stagione esaltante.

E la fragilità, quella propria ma anche quella intravista e riconosciuta negli altri, è stata la matrice di una scelta di campo avvenuta una volta per tutte, qualsiasi fosse l’ambito nel quale operare. Proprio come nel tragitto di una educazione sentimentale, Gramiccia ripercorre, attraverso la sua personale testimonianza, il mondo germinale di quella generazione, dove le differenze di classe erano contrassegnate ciascuna da un sapere e da un’estetica che le rendeva riconoscibili e, in qualche modo, attraversabili.

Come la scoperta della debolezza sociale sarà all’origine dello schieramento in campo politico, così la sapienza di un padre artigiano che, attraverso l’esercizio dell’arte della meccanica ortopedica ricostruisce le fragilità e le amputazioni del corpo, sarà all’origine della scelta professionale dell’autore che, da medico, di quelle fragilità sconterà la prossimità fisica, in una relazione con la malattia niente affatto liquida.

E, se anche volessi provarti a uscire da quella scena di precarietà politica e fisica, attraverso nuovi e meno normativi coinvolgimenti, come quello dell’arte – ciò che Gramiccia ha fatto in modo militante da oltre vent’anni – scopriresti che, ancora una volta, è proprio la fragilità la condizione che sottende quella continua e perfino affannata ricerca di senso e di dicibilità che è propria del linguaggio dell’arte.

Ma la fragilità forse non esiste: esiste, piuttosto, la patologicizzazione della fragilità, proprio per evitare che questa diventi motore di forza e di rivolta. A questo tema l’autore dedica pagine illuminanti, attraverso una messa a confronto delle politiche del sistema sanitario con le politiche del mercato dell’arte contemporanea: le prime tese alla concupiscenza affaristica del malato, soggetto debole per definizione, le altre all’imposizione di un codice linguistico che ne decide l’inclusione e l’appartenenza in una prospettiva esclusivamente mercificante.

Trasformare una subalternità in egemonia, una debolezza in forza, assumere la fragilità come termine antinomico che solo può generare una contraddizione e, dunque, il suo superamento: il senso e la prospettiva del libro di Roberto Gramiccia è tutto racchiuso in questa indicazione.