Zombi1

«Sia l’uomo che la donna sono da sempre abituati a usare i propri arnesi da lavoro afferrandoli da dietro: dalla carriola alla motosega all’aspirapolvere; in genere non si guarda l’attrezzo, per così dire, negli occhi. Come gli uomini e le donne migliaia di anni fa svilupparono sentimenti reciproci quando iniziarono ad accoppiarsi frontalmente, così oggi stanno sviluppando dipendenza se non affetto per i propri strumenti con schermo che devono, quando li usano, necessariamente guardare in quell’occhio chiamato display.”

In una discussione con Zygmunt Bauman su Lo schermo, l’Alzheimer, lo zombie: tre metafore del XXI secolo di Stefano Tani (ombre corte), il sociologo polacco segnalava che le tre metafore individuate dall’autore erano riconducibili a una meta-metafora, quella di Narciso. Tutt’e tre sono infatti riferite all’Io, sono imbevute di autoreferenzialità, e testimoniano la sempre più accentuata focalizzazione degli esseri umani su se stessi. Bauman rileva che nel Settecento e nell’Ottocento la meta-metafora era stata quella di Pigmalione, personaggio bramoso di perfezione, di leggiadra costruzione di qualcosa di esterno a sé, di un mondo da rendere solidamente, durevolmente armonioso. Ma se Pigmalione si era innamorato di una statua di marmo, il suo successore Narciso resta invece attratto, anzi incantato, dalla sua immagine riflessa nell’acqua, acqua che scorre increspandosi e trasformandosi incessantemente, quell’acqua che aveva potuto far dire a Eraclito che non ci si bagna mai nello stesso fiume. Quell’acqua insidiosa, ingannevole, mendace che nella nostra contemporanea e liquida era di consumatori avidi di procacciarsi sempre nuovi beni per sé finisce per coincidere con la radice etimologica di distruttori (il latino consumere significa appunto esaurire, distruggere) e, dato che l’Altro per il consumatore è scomparso dalla scena del mondo visto ormai come un’immensa estensione di se stesso, i Narcisi vengono sedotti dalla loro immagine per esserne risucchiati, svuotati, annientati.

L’excursus di Tani, titolare della cattedra di letterature comparate all’Università di Verona, ha inizio nel cambio di paradigma dalla lingua parlata alla scrittura: Socrate si era fidato di Platone che lo aveva tradito scrivendo i suoi dialoghi. Certo è che, se non lo avesse fatto, noi non conosceremmo la sua opera. Lo stesso «tradimento» è stato perpetrato dall’amico di Kafka che era stato incaricato di bruciare le sue opere e che non riuscì invece a impedirsi di pubblicarle. In ogni trasformazione qualcosa si perde irrimediabilmente ma può avere luogo un guadagno di testimonianza e di sapere immenso.

Ma oggi è in atto una nuova trasformazione più preoccupante: «La domanda cruciale è se la Rete sarà in grado di fare per la scrittura la cosa fondamentale che la scrittura fece per il dialogo: vivere e far vivere, tramandarsi e tramandare. Le infrastrutture elettroniche sembrano tanto fragili quanto sono invisibili».

Tani ricorda inoltre che il Narciso che viene ricordato dai più è quello della storia bassa e maggioritaria narrata dal Novellino, dove l’eroe annega nel tentativo di abbracciare la sua immagine riflessa, che crede di un altro, mentre il Narciso «alto» e minoritario di Ovidio si avvede di essersi innamorato del proprio riflesso ma, per la disperazione di non potersi congiungere con la propria immagine, si consuma struggendosi fino alla morte sul bordo dell’acqua. E rievoca l’osservazione di McLuhan: «il nome Narciso ha la stessa origine di narcosi» e avviene così che l’essere umano di oggi «non riconosce i media tecnologici da lui creati come estensioni del proprio corpo; non solo: questo non riconoscerli come tali contribuisce a fargli sviluppare una forte dipendenza nei confronti di essi, ne diviene servo – un servomeccanismo».

L’autore nel capitolo “Guardarsi” esamina quindi l’azione soggiogatrice esercitata dai vari schermi attraverso le opere letterarie che meglio l’hanno messa in luce: dall’io riflesso dallo specchio (Carroll, Sartre) all’io ritratto (Allan Poe, Wilde), dall’io fotografato (Robbe-Grillet, Modiano, Tabucchi) all’io al cinema (Joyce, Kafka, Svevo, Pirandello, Moravia), dall’io al televisore (Chandler, DeLillo, Murakami) all’io nella Rete.

Il libro diventa ancor più coinvolgente quando in “Svuotarsi” affronta la metafora dell’Alzheimer («evacuazione dell’io da un corpo bombardato per tutta la vita da una quantità di informazioni e richieste straordinarie per intensità e per numero rispetto a quelle presentate agli esponenti delle generazioni precedenti») e poi in “Trasformarsi” quella dello zombie.

L’autore descrive la scena del secondo film di George A. Romero sugli zombie, Dawn of the Dead (1978), in cui gli zombie, sorta di Lazzari né completamente morti né tuttavia più veramente vivi, sentono l’irresistibile richiamo del luogo che amavano più di ogni altro durante la loro vita, il centro commerciale. Commenta Tani: «gli zombie sono significativamente e sinistramente i consumatori che, putridi e barcollanti, tornano nel loro paradiso terrestre, l’unico luogo, fra tutti, di cui hanno mantenuto memoria. Si potrebbe aggiungere che, finché durano la vacillante ricchezza dell’Occidente e lo Stato sociale, i consumatori si consumano consumando, per poi finire di essere consumati da altri vogliosi apprendisti consumatori venuti dall’Est».