Con una certa dose di preveggenza, vista la martellante campagna estiva a cui abbiamo assistito sulle pensioni, sulla libertà di licenziamento, fino all’ultimo assalto all’art.18, con la celebrazione del fantomatico «modello spagnolo» di precarizzazione come un balsamo prodigioso per rilanciare le economie europee, Stefano Fassina giudicava i provvedimenti di Poletti non risolutivi nella guerra contro la disoccupazione, e immaginava (giustamente, con il senno del poi) che potessero invece aprire la strada alla cancellazione dell’art. 18 e al superamento del contratto nazionale.

Lavoro e Libertà – sottotitolo «La sinistra nella grande transizione» (editore Imprimatur) – è il bel titolo di un libro intervista di Stefano Fassina ex viceministro del governo Letta oggi esponente del dissenso a Renzi nel Partito democratico. «Fassina chi?» disse Renzi, provocando le sue dimissioni dagli organi dirigenti del Pd, e sottovalutando il suo rigore, la caparbietà con cui in questi anni ha continuato a sostenere una battaglia controcorrente fatta di idee ma anche di numeri, ricca di polemiche come quella con cui – quando era ancora al governo – Fassina mise in discussione i dogmi della Banca centrale suscitando una nuvola di reazioni.

Questa lunga intervista realizzata da Roberto Bertoni e Andrea Costa che sin dal suo titolo richiama volutamente un saggio di Bruno Trentin del 1994, Lavoro e libertà nell’Italia che cambia (Donzelli), è un ottimo viatico per continuare su questo terreno . Si tratta di un testo da battaglia politica che cerca di riempire un vuoto di elaborazione e di progettualità politica, quello che con una dose di ironia caustica – ma anche leggermente autoironia – Fassina nel libro attribuisce alle quattro o cinque attuali minoranze del Pd rappresentandolo con l’efficace descrizione che Toni Servillo fa di Jep Gambardella, il suo alter ego de La Grande Bellezza: «Un vuoto in cerca di contenitore». Un paragone impietoso che dovrebbe far riflettere le possibili “nuove minoranze” in arrivo nel Pd, dalla diaspora di Scelta Civica agli ultimi pretendenti di Led. Fassina riconosce a queste aree le difficoltà di lettura politica e di interpretazione dei nodi sollevati dalle elezioni politiche del 2013, passando per le elezioni del presidente della repubblica (e l’apparizione dei famosi 101 franchi tiratori democratici che impallinarono Prodi), fino alla traumatica conclusione del governo Letta e al successo del Pd di Renzi alle europee 2014.

Nella sua intervista Fassina ripropone l’orizzonte di un neoumanesimo laburista già presente nell’ultimo capitolo del suo Il lavoro prima di tutto (pubblicato nel 2014. Il chiodo su cui l’ex viceministro del Pd continua a battere è quello di una possibile sintesi tra la cultura collettiva socialdemocratica e quella dell’attenzione alla persona propria del pensiero cattolico, e soprattutto sull’idea di trasformare queste due tradizioni in una chiave per comprendere il delicato rapporto tra lavoro e libertà nel terzo millennio. La parte politicamente più intrigante e attuale dell’intervista – ovviamente – riguarda il giudizio e la disamina critica e puntuale che Fassina fa del decreto Poletti.

L’origine di questo equivoco per cui meno garanzie produrrebbero magicamente più occupazione, è la testardaggine con cui si continua a procedere su una strada accidentata e miope: non potendo svalutare la moneta si sceglie di svalutare il lavoro. Si continua ad intervenire sull’offerta quando tutta la crisi si concentra intorno al tema di una drammatica diminuzione della domanda. Fassina sviluppa questa riflessione fino a dichiarare la necessità di superare il totem del fiscal compact, anche attraverso lo strumento di un “referendum possibile” per arrivare ad abrogare l’accordo. L’Europa sulla rotta del Titanic (parafrasando il rigoroso e brillante saggio di Vladimiro Giacché) e i riferimenti alla crescita della diseguaglianza dimostrata dal ponderoso lavoro di Thomas Piketty con il suo Il capitale nel XXI secolo, consentono a Fassina di affermare che la crisi dell’Euro sia tutt’altro che conclusa. Spiega il dirigente del Pd: «Il capitalismo, in via ordinaria, amplia le disuguaglianze e tende a concentrare la ricchezza nelle piccole frazioni piu` ricche della popolazione». E ancora: «La disuguaglianza intra- generazionale è di gran lunga maggiore della disuguaglianza intergenerazionale. Altro che padri contro figli. È la stragrande maggioranza dei padri (e madri) lavoratori (e lavoratrici) – spiega l’ex viceministro – a perdere condizioni economiche e identità sociale. Sono i loro figli e le loro figlie, non i figli in generale, a subirne le conseguenze».

Fassina nella sua intervista propone dieci punti di battaglia politica in Europa e per l’Europa, che evitino la crisi finale del welfare state e invertano il vento delle politiche neoliberiste rispetto a cui la sinistra socialista e stata sino ad ora o subalterna o disarmata. Fassina parla della necessità di superare il vincolo al pareggio di bilancio, e propone un social compact che «preveda un salario minimo differenziato in percentuale al Pil pro capite di ciascun Paese» e «un piano per la re-distribuzione del tempo di lavoro, unica strada per riassorbire la drammatica disoccupazione, soprattutto giovanile». Infine il dirigente del Pd si dedica al tema della ristrutturazione del debito pubblico italiano soffermandosi in particolare sulle recenti proposte dell’economista italiana Lucrezia Reichlin, per finire con l’immaginare – attraverso gli scritti di Mariana Mazzucato – l’avvento di uno «stato imprenditore». Le ricette di Fassina, ovviamente, suonano come bestemmie rispetto all’egemonia del vangelo liberista contemporaneo: intervento pubblico nella politica industriale per sostenere l’innovazione dei prodotti e dei processi, necessità di varare un global new deal che rimetta al centro il valore del lavoro, della persona ed il bene comune in alternativa ai disastri provocati – ed ancora in atto – dalle politiche continentali di austerità.

18lettere padello
Questo libro va letto e considerato, come uno strumento utile anche in previsione dell’autunno e della battaglia politica che si prepara. Va considerato un incentivo, un memorandum sulla necessità di confrontarsi – adesso – intorno alle alternative al rigorismo di bilancio. Queste politiche ci hanno portato e ci stanno mantenendo nell’occhio di ciclone della crisi, e il governo Renzi – al di là delle battute sui famigerati «compiti a casa» – non ha messo in campo nessuna innovazione di sostanza, distinguendosi invece per una continuità di contenuti con gli esecutivi precedenti. Quello che cambia, per ora, è solo la forma comunicativa diversa, fare velocemente altro per continuare a fare lo stesso. Non si può non dire che la guida italiana del semestre Europeo – fino ad oggi inesistente per contenuti e proposte – abbia dato segnali di discontinuità di cui la carica Fassina. E colpisce che nel testo su questi temi si immagini una interlocuzione limitata al campo esclusivo del Partito democratico, quando il tema della ricostruzione di un pensiero e di proposte che ripropongano al paese una sinistra, ripartendo dal lavoro, potrebbero (e dovrebbero) andare ben oltre il Pd, al di la dei contenitori attuali ed elettorali. Anche perché – e l’agenda politica lo sta già dimostrando – serve un accumulo di forze plurali per rompere l’egemonia monolitica del rigorismo, bisogna immaginare la ricostruzione di un nuovo rapporto di forza che dal paese reale imponga una agenda alternativa, anche attraverso il risveglio del sindacato, adatta a segnare le scelte da compiere nel tempo della crisi.

Se si vuole passare dallo spread della finanza allo spread del lavoro, accompagnando questo passaggio di scenario con diritti e libertà che non siano concessi ad orologeria, serve altro. Serve un po’ più Ken Loach, e un po’ meno Jep Gambardella, nella cassetta degli attrezzi della sinistra.