Mario Beretta l’anno scorso ha allenato il Siena in serie A, prima ancora il Cesena, il Parma, il Chievo, il Brescia, il Torino, il Lecce, e un’esperienza all’estero nel 2010 con il Paok di Salonicco. Seduto tra il pubblico, segue la presentazione di un libro su Calcio e Dittature. Una storia Sudamericana di Sergio Giuntini. Al suo fianco il vecchio professore di filosofia del liceo con il quale finite le lezioni andava con l’intera classe a giocare a calcio alla Comasina, un quartiere operaio periferico di Milano. Con Mario Beretta abbiamo fatto una chiacchierata sul mondo del calcio, dai dirigenti al settore giovanile, fino al suo essere di sinistra e avere un sogno nel cassetto.

Beretta che cosa non va nel calcio in Italia?

Nel mondo del calcio si registra una spaventosa povertà di idee, certo sono tempi di crisi economica ma le idee non si pagano. Prendiamo il settore giovanile, a parte Roma Atalanta, Empoli, le altre squadre non investono, vogliono tutto e subito, non consentono ai ragazzi di crescere per arrivare in prima squadra. La squadra giovanile riceve finanziamenti solo se vince il campionato, altrimenti niente. All’estero gran parte dei giocatori del Barcellona, Ajax, Arsenal, Bayern, grandi club europei, arrivano dal settore giovanile. In Italia c’è una cattiva gestione del denaro. Prima di allenare le squadre di serie A, ho allenato il Como, il Monza, tutte squadre attente al settore giovanile, che si mantengono vendendo giovani calciatori promettenti, quando vendi due di loro ai grandi club hai recuperato tutto quanto hai speso.

E’ solo un problema di miopia finanziaria?

No, in Italia non lasciano lavorare con calma gli allenatori delle giovanili, i dirigenti fanno pressione, i ragazzi diventano merce per la carriera dell’allenatore, che aspira a vincere a tutti i costi. Dovrebbe essere il contrario, l’allenatore al servizio dei ragazzi. Dovrebbero esserci allenatori solo per le squadre giovanili.

Quanto ti è servito aver fatto l’Isef e insegnato i primi tempi?

Moltissimo, a volte insegnavo ai bambini di terza elementare e dopo qualche ora mi trovavo a 100 km di distanza sul campo con giovani di 25 anni, un passaggio brusco, che mi ha aiutato a mettere al primo posto sempre la persona e poi il calciatore. Una volta un giocatore di serie A stava per separarsi dalla moglie, i rapporti erano burrascosi, l’ho fatto risultare infortunato per consentirgli di recuperare la relazione con la moglie. In un altro caso un calciatore aveva la madre affetta da una grave malattia, gli ho detto che poteva saltare gli allenamenti senza che questo pregiudicasse la sua convocazione per la partita della domenica. Quando conosci le loro storie, durante la partita puoi richiamarli se sbagliano, ma usi un tono diverso. L’indole dell’insegnante attento ai rapporti umani l’ho sempre avuta, fin da ragazzino, e ai calciatori ho sempre trasmesso entusiasmo, ho avuto buoni rapporti con tutti e per me è stata una grande soddisfazione vedere alcuni miei calciatori giocare nella Juve, come Molinari e De Ceglie, e altri nel Milan.

Nel calcio della serie A è sufficiente essere un bravo allenatore e avere un buon rapporto con i calciatori?

Il lavoro di equipe è fondamentale, a volte occorre l’intervento dell’allenatore in seconda per parlare con un calciatore, soprattutto i più giovani, perché hanno meno soggezione, altre volte ricorri all’allenatore dei portieri per risolvere alcune beghe. Quanto ai risultati, nel calcio ci sono troppe variabili. L’anno scorso allenavo il Siena, negli ultimi minuti dell’ultima partita di campionato Rosina ha tirato un calcio di rigore e ha preso il palo, se quel tiro fosse entrato in porta il Siena sarebbe rimasto in serie A.

Dopo tanti anni da allenatore di squadre di serie A e B, che idea ti sei fatto dei dirigenti del calcio italiano?

A parte alcune eccezioni, nel complesso ritengo che non siano in grado di gestire con oculatezza la gran quantità di capitali che girano nel mondo del calcio, ci vorrebbe una vera e propria scuola di formazione, che in Italia manca. Per la formazione degli allenatori in Italia esiste il centro tecnico di Coverciano, a mio avviso uno dei migliori al mondo, compreso il Centro studi, non altrettanto esiste per la formazione dei dirigenti. Penso che nel mondo del calcio ci sia poca professionalità.

Che cosa non va nel giornalismo sportivo italiano?

Ci sono alcuni giornalisti molto bravi, tanti altri a volte la sparano grossa non hanno una formazione tecnica, non conoscono bene il calcio sotto il profilo tecnico-tattico, spesso danno addosso a un giocatore senza capire che quelle cose che ha fatto in campo gliele ha chiesto l’allenatore. Per i giornalisti sportivi ci vorrebbero dei corsi di formazione sulla tecnica del calcio, ma in Italia ci riteniamo tutti esperti fin dalla più tenera età. Questo fa sì che i lettori non vengano educati a osservare la tecnica, le belle giocate di un calciatore. Nel complesso il calcio italiano è regredito, sta toccando il fondo, non si vedono più belle partite, ciò che conta è il risultato a tutti i costi, ottenuto anche con una bassa qualità del gioco, ormai non si cura più la tecnica fatta di due semplici cose, il controllo della palla e il passaggio.

Hai fatto un’esperienza all’estero allenando il Salonicco. La trojka ha colpito il calcio greco?

In Grecia il calcio è stato notevolmente ridimensionato dalla crisi economica, il Paok è precipitato in una crisi profonda, ora lo ha comprato un magnate russo, la stessa sorte è toccata all’Aek di Atene, resta l’Olimpiakos. Esistono tredici quotidiani sportivi che ruotano intorno a Paok e Olimpiakos. A Salonicco il giorno del primo allenamento c‘erano allo stadio 12 mila spettatori, un pubblico che in Italia alcune squadre di serie A se lo sognano. Nel Salonicco giocavano calciatori di tante nazionalità, buona parte erano dei Balcani, poi brasiliani, portoghesi, africani. Durante l’allenamento parlavamo in inglese, ma ogni calciatore aveva una parola della sua lingua che durante il gioco pronunciava più frequentemente e che veniva fatta propria da tutti gli altri, alla fine parlavamo una sorta di esperanto. Nell’esperienza di Salonicco, mi ha colpito il fatto che il calcio greco non contempli che un allenatore parli con i calciatori. Erano tutti stupiti che dopo l’allenamento mi fermassi a parlare con i giocatori per chiedere loro come stavano o parlassi con qualcuno che aveva un problema personale, nel calcio greco l’idea prevalente è che un allenatore deve dare gli ordini e i giocatori devono eseguire, non so da dove derivi questa mentalità, forse è un retaggio delle dittature dei colonnelli.

Nell’ambiente del calcio sei conosciuto come uno di sinistra, addirittura un comunista, non ti sembra di esagerare?

Vengo da una famiglia di socialisti, non i craxiani, i miei mi hanno educato a stare attento al sociale, a coloro che hanno di meno, ai poveri. Sono nato a Milano e ho vissuto in via Padova, una via abitata prima da emigranti provenienti dal sud dell’Italia e poi da extracomunitari, il mondo della disuguaglianza sociale l’ho sempre avuto sotto gli occhi. Un certo senso della giustizia è nel mio dna, quando da ragazzo giocavo in serie D nella Pro Sesto, la squadra di Sesto San Giovanni, se un giocatore avversario faceva un’entrata pericolosa su un mio compagno di squadra e non si scusava, prima o poi commettevo un fallo su di lui per compensare ciò che ritenevo un’ingiustizia, infatti spesso finivo fuori dal campo per espulsione. Certo ho vissuto attivamente gli anni ’70, da studente non mi sono mai perso una manifestazione compresi gli scontri che seguivano, non sono mai stato iscritto a nessun partito, ma in quegli anni simpatizzavo per l’Mls (il Movimento lavoratori per il socialismo, ndr). In quel periodo molti miei compagni finirono nel terrorismo, altri nelle comunità di recupero perché si facevano di eroina. A me ha salvato il calcio, durante le manifestazioni non mi facevo mai prendere la mano perché dopo qualche ora avevo gli allenamenti.

Qual è il tuo sogno nel cassetto?

Vorrei allenare la nazionale di calcio di Cuba.