La sezione «Classici» è una di quelle che non delude mai; questa intelligente sostituzione di retrospettive, improvvisate intorno ad avventuristiche reinterpretazioni, è diventata una sorta di Cinema ritrovato Due, non solo perché la Cineteca di Bologna è presente con alcuni restauri, ma soprattutto perché è una vetrina che spazia tra il passato lontano e quello più prossimo, e in diversi continenti, tra classici come i Sette samurai di Kurosawa (da confrontare col film di chiusura, remake de I magnifici sette che a sua volta rifaceva il film giapponese), il nitido bianco e nero fotografato da Gordon Willis di Manhattan, il durissimo L’argent di Bresson, o La battaglia di Algeri, modello di un certo cinema politico, o il taiwanese La leggenda della montagna di King Hu, coi suoi boschi dai colori delle stampe cinesi, Processo alla città di Zampa, che trattava del primo processo alla camorra o l’amaro Tutti a casa di Comencini, il bizzarro Ferreri de L’uomo dei cinque palloni, e cosi via.

Del film censurato di Mohsen Makhmalbaf, che ha aperto la sezione, si è gia trattato in queste pagine: la riproposta di questo film è in linea con il lavoro di difesa non solo di una memoria del cinema, ma anche del lavoro di cineasti che hanno bisogno di questa visibilità per essere protetti e per salvare il loro lavoro: «È facile far tacere il regista, ma è impossibile sopprimere il cinema» è il titolo della dichiarazione in merito a questo film di Makhmalbaf nel catalogo. Di segno simile, e nessuno si scandalizzi, la riproposta di Zombi nell’edizione montata dal co-autore Dario Argento, che aveva collaborato con George Romero nel raccontare i morti che vivono, profeticamente, in un centro commerciale.

The Brat, La trovatella di John Ford (1931) è uno di quei casi in cui il restauro restituisce un testo che la storiografia aveva registrato come opera minore, e che dimostra invece come nei 65 minuti che all’epoca del primo sonoro rappresentavano la durata media di un film, si poteva raccontare una storia complessa, con tanto di evoluzione psicologica del personaggio e con l’humor speciale di Ford. Al centro della vicenda una «trovatella» che uno scrittore dalla vena creativa spenta «adotta» in tribunale (dove è finita per aver cenato senza pagare in un ristorante italiano) per farne la protagonista del suo nuovo libro.

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I personaggi sono sbalzati a tutto tondo: il maggiordomo burbero dal cuore d’oro, le due ragazze dell’alta società che competono per la mano del ricco scrittore, il figlio trascurato che vorrebbe occuparsi del ranch di famiglia, lo scrittore narcisista e insensibile, ma assai arguto, e soprattutto la trovatella, che fa persino una bella scazzottata stile saloon con una delle ragazze snob, e non è mai stucchevole, neppure quando sgrana gli occhioni, ed è anzi sanamente sexy quando si dondola sull’altalena col piglio della trapezista, mettendo in bella mostra le mutande.

Di poco successivo, ma sempre caratterizzato da un ritmo scatenato del racconto e dei dialoghi, Ventesimo secolo di Howard Hawks (1934) con John Barrymore e Carol Lombard, ambientato nel mondo del teatro: Barrymore è l’impresario potente quanto narcisista e volubile che fa di una commessa, dilettante talentuosa, una star, che, raggiunto il successo, abbandona il teatro per Hollywood –tipica sfida in cui si può immaginare da che parte sta il cinema. Girato in tre settimane da una sceneggiatura dei grandissimi Hecht e Mac Arthur, il film è uno di quei miracoli dello studio system che ci ricorda quanto talento c’era allora a Hollywood, senza neppure un effetto speciale.

Assai diverso il caso de La prigioniera del destino di Veit Harlan l’autore di Suss l’ebreo, beniamino di Goebbels che gli permise di girare questo film nel prezioso AgfaColor in piena guerra, nel 1942. Melodramma cui l’aggettivo fiammeggiante va persino stretto, nel suo eccesso di passione amorosa e sentimenti assoluti, tra Sturm und drang e Nietzsche, ha per protagonista un uomo di mare che incontra Octavia, bella, ariana e angelicata, e innamoratosene, abbandona la vita di avventure in mare aperto, per accontentarsi delle acque del Reno. Presto però sopperisce alla mancanza di quegli stimoli con la passione per la selvaggia vicina di casa, con la quale fa tumultuose cavalcate nei boschi e che nuota nuda dietro alla sua barca. In un ritmo in crescendo, propone un colore ricco e pastoso, trionfante nella scena del baccanale carnevalesco, che evoca inevitabilmente Eyes Wide Shut.

Tra i documentari sul fare cinema davvero intenso l’omaggio doveroso a Dennis Hopper da parte del suo amico e «assistente» Satya de la Manitou, in Along the Ride di Nick Ebeling, che ripercorre la carriera di questo attore, uno dei più brillanti frutti dell’Actors studio, autore di Easy Rider e di li in poi eroe del cinema indipendente e di uno stile di vita trasgressivo, sesso, droghe, alcol, rock e armi, ma anche fotografo e pittore, appassionato collezionista di arte moderna. Autodistruttivo quanto visionario, Hopper ha diretto l’affascinante The Last Movie un meta-spaghetti western girato in Perù, sovversivo nel suo antihollywoodismo: non a caso il film è uscito in Italia col titolo Fuga da Hollywood e lo ha reso indesiderabile colà. Il suo lavoro di attore meriterebbe una retrospettiva che da Gioventù bruciata arrivi a Colors, passando per Apocalypse Now e Velluto blu.

Ma il festival parla di cinema ritrovato anche nel bellissimo Dawson City: Frozen Time di Bill Morrison che racconta con un uso intelligente del found footage il ritrovamento prodigioso di casse di film in nitrato degli anni Dieci e Venti congelate in una piscina per l’hockey a Dawson, la capitale della corsa all’oro, nello Yukon, raccontando la storia della città sia con degli home movies che attraverso le vecchie pellicole che raccontano di un tempo in gli studios erano cosi appagati che preferivano abbandonare le pellicole piuttosto che pagare le spese del viaggio di ritorno dal lontano Canada.