Nonostante un detto siciliano metta in guardia sulle insidie della vita dei naviganti («chi può andar per terra, non vada per mare», cui pò jiri pri terra nun vaja pri mari) una delle leggende più antiche e popolari dell’isola riguarda proprio uno strano essere acquatico: è un uomo mutante che acquista un corpo anfibio – metà umano metà pesce – probabilmente in seguito a una maledizione materna, ma ancor più grazie alla sua inesauribile curiosità e desiderio di esplorazione delle viscere sottomarine.
Cola Pesce, il ragazzo di Messina e tuffatore esperto che viene preso di mira da un re (Federico II o Ruggero?) affinché gli riporti notizie affidabili sulle fondamenta della Sicilia proprio lì dove l’acqua è più profonda, tra Scilla e Cariddi, affascinò con la sua baldanza eroica anche Benedetto Croce e poi Italo Calvino, che gli conferì un posto d’onore nella sua raccolta di fiabe italiane. Lo scrittore trascrisse una delle tante versioni del racconto che, secondo lo studioso Giuseppe Pitrè, ne contava almeno quaranta, con picchi di emigrazione a Napoli (ma Pitrè in questo caso contrastava Croce sulle presunte ascendenze partenopee di quel nuotatore ossessivo), Catania e pure in Francia.

Con la pubblicazione del libro Cola Pesce e altre fiabe e leggende popolari siciliane (Donzelli, illustrazioni di Fabian Negrin, a cura di Bianca Lazzaro, pp. 323, euro 30), che può viaggiare separatamente dall’altro volume di quasi mille pagine, si può disporre di ben diciassette «adattamenti». Pitrè, in calce ad ognuno di questi, rivela la fonte dei suoi affabulatori occasionali – marinai, pescatori, «novellaie» novantenni, contadini, compiendo un’operazione filologica raffinata e mantenendo un distacco intellettuale che non lo fa propendere per nessuna delle versioni raccolte.

Mito di fondazione (Cola Pesce, immergendosi, scoprirà che la Sicilia – o Messina, per sineddoche – è retta da tre colonne di cui una molto rovinata a causa di un fuoco sotterraneo), che funge da raccordo fra le forze della natura che incorniciano l’isola, l’Etna e il mare, la leggenda rovescia lo «spazio di conoscenza» greco di Ulisse per trascinarlo negli abissi. Cola Pesce risponderà a tutte le prove richieste dal suo sovrano: come un figlio di Poseidone che ha dimistichezza con i segreti del mare, tornerà a galla più volte riconsegnando oggetti simbolici, coppe d’oro, corone e anelli, ma poi sparirà, forse inghiottito da vortici e bocche fumanti. Al suo posto, riaffiorerà un bastone malconcio e carbonizzato, oppure un pugno di lenticchie, a seconda della scelta del raccontatore. Si dice che, un giorno, quando nel mondo non ci sarà più dolore, Cola Pesce uscirà in superficie, ormai certo che la Sicilia sia saldamente ancorata all’immaginario del suo stesso popolo.

I ripetuti tuffi tra le onde dello Stretto non significano comunque che il ragazzo subacqueo sia un patrimonio solo siciliano. Secondo Bianca Lazzaro, che ha trascritto in italiano l’oralità della tradizione popolare rimanendo fedele al suo ritmo e lessico, è una figura mediterranea, creatura mitologica che non disdegna le coste nord atlantiche.