Negli Stati Uniti si voterà per eleggere il presidente martedì 8 novembre.

Cosa succederebbe se una strage come quella di Orlando avvenisse domenica 6 novembre? Un massacro con 50 morti e 53 feriti a 48 ore dall’apertura dei seggi, senza che ci sia veramente il tempo di capire se l’autore sia uno squilibrato, un fanatico omofobo o un terrorista islamico? Forse Omar Mateen era tutte queste cose insieme, forse no, l’importante è capire che se qualcuno come lui passasse all’azione qualche giorno prima delle prossime elezioni presidenziali il mondo potrebbe ritrovarsi con un presidente Trump senza aver mai neppure capito come e perché ci sia un CANDIDATO Trump.

Omar Mateen era di famiglia afghana ed è cresciuto in un ambiente dove certo non si amavano gli omosessuali (il padre ha dichiarato che «punirli» spetta a dio e non agli uomini), quindi può darsi che il radicalismo islamico non c’entri, qualunque cosa dicano i propagandisti del Califfato. Però sappiamo che l’Fbi aveva indagato su di lui per contatti con ambienti fondamentalisti e, comunque, è perfettamente possibile che un giovane americano di religione musulmana covi la rabbia in corpo per le guerre in Afghanistan e in Iraq senza manifestare i suoi sentimenti fino al momento dell’esplosione.

La domanda che tutti si fanno in queste ore è se dei giovani cresciuti negli Stati Uniti, come Mateen, o comunque integrati nella vita americana, come la coppia responsabile della sparatoria di San Bernardino nel 2015, possano diventare terroristi come i giovani francesi e belgi responsabili degli attacchi di Parigi qualche mese fa.

Nessuno ha la risposta ma è già ben chiaro che anche il solo episodio di Orlando può rappresentare un momento di svolta per la campagna elettorale. Donald Trump aveva già sfruttato al massimo gli attacchi di San Bernardino, con la sua proposta di vietare l’ingresso negli Stati Uniti a tutti i musulmani, di qualsiasi paese, età o condizione sociale. Oggi quella che sembrava una sparata demagogica potrebbe diventare una proposta politica: inattuabile, minoritaria, assurda ma comunque una proposta politica.

Le elezioni di quest’anno vedono favoriti i democratici, per molti motivi. Il primo è strutturale, demografico: gli Stati Uniti sono un paese sempre più articolato dal punto di vista etnico e le minoranze non amano i repubblicani in generale e Trump, che vuole costruire un muro al confine con il Messico, in particolare. Neri e ispanici andranno a votare compatti per Hillary Clinton.

Donald Trump può contare su una maggioranza degli elettori maschi bianchi, soprattutto quelli senza educazione universitaria, ma alla candidata democratica basterebbe raccogliere il 36,5% dell’elettorato bianco nel suo complesso per ottenere una maggioranza nel paese e diventare presidente. Così dovrebbero andare le cose.

Negli Stati Uniti, «patria della democrazia», si usa però un sistema elettorale creato nel 1787 che solo teoricamente affida al popolo sovrano la scelta del capo dello Stato: la costituzione in realtà attribuisce questo potere a un collegio di 538 elettori nominati dai singoli stati della federazione.

Poiché in questo collegio sono sovrarappresentati gli stati piccoli è possibile che ottenga la maggioranza un candidato che ha raccolto meno suffragi del suo avversario tra i cittadini. Successe nel 2000 con George W. Bush che aveva ottenuto oltre mezzo milione di voti meno di Al Gore. Era successo altre tre volte nella storia americana.

Ogni quattro anni, le televisioni ci presentano l’immagine di un grande paese che vota (121 milioni di cittadini nel 2012) ma la realtà è più complessa: contano i voti a livello dei singoli stati, che possono rovesciare una situazione incerta.

Per esempio, nel 2004, se John Kerry avesse ottenuto 120.000 voti in più in Ohio avrebbe avuto la maggioranza nel collegio elettorale, pur ottenendo tre milioni di voti in meno di Bush su scala nazionale.

Hillary Clinton è un politico di grande esperienza, è la prima candidata donna alla presidenza dal 1787, ha il sostegno di due figure popolari come il marito e come Barack Obama, ma non è amata dagli americani. È considerata (giustamente) un rappresentante fatto e finito dell’establishment, qualcuno che rappresenta la continuità, non il cambiamento.

In un anno come il 2016 è quindi un candidato vulnerabile a una reazione improvvisa e irrazionale dell’opinione pubblica, a un movimento di umore causato da un avvenimento clamoroso.

Per esempio un attentato alla vigilia del voto.

Trump è un candidato improbabile, xenofobo, razzista e incompetente ma rappresenta le frustrazioni di decine di milioni di americani che non sopportano più le dinastie politiche Bush e Clinton, presenti in un modo o nell’altro nelle elezioni presidenziali fin dal 1980, 36 anni fa. In condizioni normali Hillary dovrebbe vincere 6-0, 6-0 ma quest’anno tutto può succedere. Non le resta che sperare che l’Fbi sappia fare bene il suo mestiere di prevenzione, almeno fino all’8 novembre.