Il momento peggiore di una serata non proprio eccitante è quando Saverio Costanzo sale sul palco a ritirare la coppa Volpi per il miglior interprete maschile a Adam Driver, protagonista del suo Hungry Hearts. Che subito dopo la giuria presieduta dal compositore francese Allexander Desplat, premia anche con la coppa per la migliore attrice, Alba Rohrwacher. Come è possibile preferire Driver a un grande attore quale conferma di essere Willem Dafoe nel Pasolini di Ferrara – film ignorato tout court troppo disturbante nella sua contemporaneità? – o al Michael Keaton, Norma Desmond al maschile nel millennialsi Birdman di Inarritu, altro magnifico film escluso.

Hungry Hearts diventa così anche il film che premia il cinema nazionale, decisione altrettanto ingiusta se paragonato al Giovane favoloso di Mario Martone, che meritava di vincere, ma forse anche lui disorienta (come il Pasolini ferrariano) per la sua lucidità e il sentimento coraggioso con cui interroga il cinema e il nostro tempo. A differenza dei virtuosismi formali dispiegati da Costanzo che conducono all’ happy end di un mondo senza donne (un po’ come il concorso di Venezia privo di figure femminili in rilievo rispetto a una mascolinità imperante e selfie) forse unico punto di partecipazione emozionale del regista.

Il momento più bello è invece è quando Tim Roth impugna il microfono, contro ogni regola, e dichiara il suo amore per The Look of Silence, il magnifico film di Joshua Oppenheimer a cui è andato il Premio speciale della giuria, che tutti davano, e giustamente, come possibile Leone d’oro, segnalando così un evidente disaccordo tra i giurati e dicendoci da che parte sta lui, da quella cioè di un cinema vitale e capace di mettersi in discussione nel confronto col proprio tempo e le storie che racconta.

Ma questo palmares che invece incorona con il Leone d’oro Un piccione seduto sul ramo riflette sulla sua esistenza del regista svedese Roy Andersson, dimenticando i film migliori della selezione, non solo Pasolini e Il giovane favoloso, ma anche Nobi di Tuskamoto, metafora tagliente e fisica sulla guerra, è troppo convenzionale per farlo.

Così lascia fuori quel fare-cinema che, appunto, spiazza, o quantomeno disorienta ma è grande, pensiamo pure a Birdman di Inarritu, per qualcosa di più rassicurante, o riconoscibile nellla sua cifra, come è il pure molto bello Le notti bianche di un postino di Koncalovsky Leone d’argento, o Tales della cineasta iraniana Rahkshan Banietemad, unica donna della selezione insieme alla francese Alix Delaporte

La giuria ha scelto in generale il racconto della realtà meno inquietante, (e anche premiato prevalentemente il cinema europeo invece di quello americano) garantito dai quadri fissi (33) dello svedese Andersson, una specie di Hopper trasferito da Ikea, che vorrebbero riflettere «cinicamente» sulla disperata banalità dell’esistenza. E scelte potenti del suo cartellone sono state dunque quasi tutte ignorate. Peccato, è stata una buona Mostra, avrebbe meritato un Leone all’altezza.