Se vi è una costante, saldamente radicata nella mentalità e nell’opinione dei cittadini tedeschi, questa è il timore delle avventure politiche. I lunghi cancellierati di Adenauer e Kohl ne sono stati, al tempo loro, l’espressione.

E i tre mandati di Angela Merkel si innestano su questa tradizione, che la quarta candidatura della Cancelliera, alle elezioni politiche del 2017, non fa che rafforzare ulteriormente. È una decisione che i più considerano inevitabile, logica, priva di alternative. E come tutte le scelte obbligate non suscita particolare euforia. A cominciare dalle file stesse del suo partito, la Cdu, e soprattutto del partito fratello bavarese, la Csu.

Se, dunque, nell’area democratico-cristiana non è cresciuta nessuna figura politica in grado di competere con Angela Merkel, più in generale, sull’intero orizzonte politico della Repubblica federale non si affaccia nessun avversario davvero temibile. La destra sempre più nazionalista e xenofoba di Alternative für Deutschland ( Afd), abbandonata la patina borghese delle origini, si radicalizza sia ai vertici sia nella sua base elettorale rendendosi così un interlocutore del tutto impraticabile.

A sinistra la Spd si interroga se candidare il suo sbiadito segretario Sigmar Gabriel, mai uscito sul serio dall’ombra della Cancelliera, o il non popolarissimo presidente del Parlamento europeo Martin Schultz. Ma, soprattutto, non vi è nulla nell’esperienza recente della socialdemocrazia che indichi la possibilità di formulare un programma alternativo e più avanzato di quello della Grosse Koalition. Spd, Verdi e Linke avrebbero in realtà i numeri per governare insieme, ma è assai difficile che ne abbiano il coraggio. Non siamo in Portogallo, e i tedeschi, anche quelli che siedono nelle segreterie dei partiti, non amano, come dicevamo, le avventure. Merkel tiene saldamente nelle mani un centro spostato a sinistra quanto basta per togliere aria alla già boccheggiante socialdemocrazia, ma senza spaventare troppo l’elettorato tradizionalmente conservatore. Ha le carte per vincere. E, del resto, in un’Europa orfana della Gran Bretagna, tra i regimi sempre più postdemocratici dell’est, la Francia presumibilmente contesa tra il Front national e un personaggio marcatamente di destra come Fillon, per non parlare di Donald Trump alla Casa bianca, la Cancelliera appare, sia pur in versione rigorista, come la paladina di un liberalismo occidentale che non ha ancora gettato a mare tutti gli strumenti di mediazione e alcuni principi basilari.

Nei grandi paesi dell’Europa occidentale, la destra xenofoba e antieuropeista non ha i numeri per arrivare a governare (con qualche legittimo timore per la Francia), ma ha un formidabile potere di condizionamento, paragonabile a quello che esercitarono le opposizioni di sinistra negli anni Sessanta e Settanta, ottenendo concessioni tali da modificare visibilmente gli assetti sociali in diversi paesi.

Questa pressione della destra è visibile in molti programmi di governo, nelle legislazioni emergenziali, nella chiusura delle frontiere e, soprattutto, nei linguaggi che hanno diffusamente colonizzato il discorso pubblico. Merkel, fino ad oggi, sia pure con qualche retromarcia e qualche cedimento, ha tenuto testa a questa pressione e ci si augura che continui a farlo anche durante la campagna elettorale.

Certo, il quadro che si prospetta è quello di un’Europa sempre più soggetta all’egemonia tedesca e alle sue dottrine economiche. Ma è chiaro che se Berlino continuerà a puntare senza mediazioni su una competizione intraeuropea che alimenta la crescita dell’economia tedesca con il deperimento di altre economie continentali, se il potere dei creditori continuerà a impedire la crescita imponendo politiche di austerità, allora la potenza tedesca non costituirebbe un elemento di equilibrio o di argine di fronte alla disgregazione dell’Unione e all’involuzione dei sistemi politici europei, ma, al contrario, un acceleratore di questi processi.

La Cancelliera sembra esserne del tutto consapevole quando dichiara che questa che si accinge a intraprendere sarà la sfida più difficile della sua carriera politica. Non tanto sul fronte interno, che pur avrà la priorità fino al giorno delle elezioni, quanto su quel ripensamento dell’architettura europea senza il quale l’intero progetto è destinato a franare.