Il revisionismo costituzionale, contro cui si scaglia il libro di Gaetano Azzariti, è una vera e propria ondata reazionaria prodotta da una ventennale retorica del nuovo (Contro il revisionismo costituzionale, Laterza, pp. 260, euro 22). Dal trionfante culto della semplificazione, che si inebria attorno alle narrazioni di un capo, scaturisce una trasfigurazione della democrazia, sempre più impoverita e irriconoscibile. I poteri perdono l’incastro che li rende controllabili, coordinati nelle loro funzioni, e i diritti evaporano in uno svuotamento di senso.

Il revisionismo è quindi la produzione di cose vecchie (varianti postmoderne dello Stato monoclasse) con il mantra del nuovo (banalizzazione delle questioni istituzionali). Lo sforzo del saggio è di andare alla radice del nesso perduto tra costituzionalismo, democrazia e lavoro per «ri-declinare la modernità del diritto». Le grandi categorie giuridiche (eguaglianza, cittadinanza, rappresentanza, libertà) rinviano al ruolo costruttivo del conflitto entro le società plurali.

Un assunto cardine nel libro è, infatti, che «il conflitto è un valore che la nostra storia costituzionale ha elevato a principio di legittimazione del cambiamento». Con la fine del grande conflitto, l’ordinamento si trova senza fondamenti. La sconfitta del lavoro conduce alla scomposizione del soggetto sociale e quindi alla inesorabile rimozione della base materiale dell’età dei diritti. La distruzione creatrice del capitale coinvolge così anche le forme della politica e del diritto costituzionale che sono smantellate come vecchie incrostazioni che ostacolano l’efficienza dei mercati.

L’autonomia perduta del lavoro

Al centro della riflessione di Azzariti sulla democrazia costituzionale c’è la triade diritto-politica-società. I diritti sono cioè anche poteri e rinviano al rapporto di forza che si stabilisce tra le classi sociali. Finché il lavoro mantiene una propria salda soggettività politica, permane anche il fondamento del costituzionalismo. Con la perdita di autonomia politica del lavoro si decompone il soggetto sociale, frana la trama politica della democrazia e «la lex mercatoria diventa il paradigma sul quale si costituiscono i nuovi scenari costituzionali». La deposizione del lavoro come sovrano nella costituzione economica e l’innalzamento della concorrenza a cardine dell’ordinamento ha effetti laceranti.

Il capitale, secondo l’analisi proposta nel saggio, impone una sorta di «costituzionalizzazione della crisi», in virtù della quale la lex mercatoria e la sostanza immateriale della globale potenza finanziaria assumono una valenza superiore alla costituzione. Alla potenza materiale del lavoro, che reggeva diritti e piccole libertà solidali, si sostituisce la potenza immateriale del capitale, che impone il dominio dell’economico come parametro del pubblico ormai privatizzato. La vocazione totalitaria – come la chiama Azzariti – del neoliberismo, innalza la concorrenza a unico principio organizzativo della vita, sprigionando così le tendenze autodistruttive del capitale.

Le risposte teoriche e politiche che sinora sono state abbozzate contro «un assolutismo ideologico neoliberista» non paiono risolutive. La coltivazione di «una via giurisdizionale alla realizzazione dei diritti fondamentali» secondo Azzariti non coglie il significato costruttivo dell’incontro del disegno costituzionalista con la politica e quindi con il conflitto entro società pluraliste. Al pari della via giudiziaria per i diritti, inadeguata gli pare anche la risposta della microfisica del potere che esalta «la moltitudine disarmata» e insegue un «indeterminato potere costituente». Il primato del conflitto e della politica non significa indifferenza per le forme e i diritti perché «oltre il limite delle costituzioni vi sono solo poteri selvaggi». La triade diritto-politica-società va articolata con efficacia.

Non meno impolitico della retorica dei diritti che scavalca il conflitto e la politica si conferma il proposito di recuperare il sovrano unico, la decisione creatrice di ordine. Queste suggestioni tardo-decisionistiche, secondo Azzarti, ignorano la fine del «monopolio statocentrico della produzione normativa». E quindi trascurano che non esiste una decisione risolutiva espressa di una sola autorità sovrana che sia «in grado di costituire o ricomporre l’unità dell’ordine sociale». Il recupero della costruttività del politico non può essere realisticamente sganciato dal disegno di riformulare su nuove basi l’incontro di democrazia e costituzione. La convinzione del libro è che la costituzione come argine al puro momento di dominio prevalente nel mercato ha bisogno di rapporti di forza favorevoli nella società e nella politica, altrimenti il mercato abolisce i soggetti della mediazione e invoca la personalizzazione della politica per chiudere i giochi a suo favore.

Se l’appannamento del conflitto e la disarticolazione della rappresentanza con miraggi carismatici o suggestioni identitarie pongono la costituzione senza soggetto, una strategia alternativa alla crisi della democrazia deve puntare ad agganciare diritti e forze sociali, a riattivare il «triangolo della rappresentanza» con il circuito elettori-partiti-parlamento. Nel disegno proposto nel volume, per la riqualificazione democratica dell’ordinamento, centrale è il rilancio della rappresentanza, quale luogo del plurale, ancoraggio conflittuale.

I vuoti corposi del presente

Ciò impone una ferma opposizione allo snaturamento sistemico in atto che tramuta il parlamento in sede di approvazione passiva a colpi di voti di fiducia, cambia i deputati in docili truppe nominate e disciplinate, sia pure in un quadro di endemico transfughismo. Azzariti è contrario alla riesumazione di forme di procura civilistica, di vincolo privatistico. Il mandato imperativo «appare inconciliabile con un contesto di democrazia pluralista», e con le sue rigidità la revoca finisce per aggredire la dimensione autonoma della rappresentanza plurale.

Il maggiore nemico del revisionismo costituzionale si rivela la sua appurata inefficacia. Il suo cammino è stato connotato, non a caso, da vent’anni di fallimenti nel funzionamento del sistema politico approdato ad un paralizzante «tripolarismo asimmetrico». Il paradosso estremo che accompagna il successo del revisionismo è di determinare, come nota Azzariti, «una politica vuota a fronte di una società vuota». Cioè la conseguenza estrema del revisionismo trionfante è un nichilismo distruttivo che finisce per negare qualsiasi base del potere legittimo. Contro questo corposo vuoto che sbrana politica e società il costituzionalismo democratico è un progetto per ripartire.