Nelle note sul sito del film, alla voce «cast e crew», attori e tecnici si legge: «Il Ministero della Cultura e dell’Orientamento Islamico convalida i titoli di testa e di coda dei film ’divulgabili’. Con mio grande rammarico, questo film non ha titoli. Esprimo la mia gratitudine a tutti coloro che mi hanno sostenuto. Senza la loro preziosa collaborazione, questo film non sarebbe mai venuto al mondo».

 

 

Già perché nonostante l’Orso d’oro alla scorsa Berlinale, il successo mondiale, il film di Jafar Panahi, da oggi anche nelle nostre sale (felicissima ma non posso trattenermi dal dire che peccato il doppiaggio) è un film clandestino. Le ragioni le sappiamo, dalla sua condanna il regista iraniano – che come pochi ha saputo raccontare le tensioni e i desideri più intimi del suo Paese fuori da ogni cliché – non può più girare film. E nemmeno uscire dal Paese, partecipare ai festival che ovunque ne reclamano la presenza lasciando una sedia vuota per lui, parlare con la stampa, rilasciare dichiarazioni pubbliche. La sua «colpa»? Avere criticato apertamente il regime di Ahmadinejad schierandosi a fianco dell’onda verde.

 

 

A questa violenta censura Panahi replica: «Sono un regista e non posso fare altro che film». E il suo statement suona come una dichiarazione di vita. I film, dunque, continua a farli pure se in modo diverso da prima, la sua cifra poetica si misura infatti costantemente con la costrizione e da quest’ultima viene determinata. In senso spaziale come la casa nella quale si svolge il precedente Closed Curtain, o narrativo come in This is not a film arrivato di nascosto dalle autorità a Cannes, mai però nelle scelte di campo, nell’affermazione di una indipendenza critica del pensiero e dello sguardo.

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Lo stesso accade in Taxi Teheran, nel quale per la prima volta dal suo arresto e dalla sua condanna Panahi esce in strada e torna a percorrere le strade della capitale iraniana. Il dispositivo è in apparenza semplice, e molto cinematografico: un taxi guidato dallo stesso Panahi che diventa set dove «registrare» le storie possibili, quanto arriva dalla realtà che irrompe in quell’abitacolo. C’è tra i passeggeri di questo tassista improvvisato, che non conosce le strade caotiche della capitale qualcuno che lo riconosce come il venditore clandestino di dvd, da cui Panahi ha cercato i film di Allen o di Ceylan – C’era una volta in Anatolia. È convinto di essere capitato nel bel mezzo di una ripresa e che tutte le persone sul taxi siano attori. All’inizio un pò intimidito, poi ne approfitta e fa passare subito il regista per suo socio allo studente di cinema che compra da lui perché altrimenti quei film «proibiti» (quasi tutto il cinema mondiale) non potrebbe vederli.

 
Il venditore di dvd che rischia la galera, definisce la sua attività culturale (giustamente) e a Panahi che lo rimprovera per la bugia dice che in fondo anche lui o suo figlio hanno visto i film grazie a lui. «Ho letto tanti libri e visto tanti film eppure non so cosa raccontare nel mio» chiede consiglio lo studente al regista. Panahi lo invita a guardarsi intorno, a cercare la sua storia.

 
Ognuno di quei clienti è una storia possibile: la moglie che piange disperata mentre il marito caduto dalla bici fa testamento a suo favore e vuole essere ripreso perché vi sia la prova agli occhi dei fratelli avidi. Una volta in ospedale la donna chiama Panahi chiedendogli il video, l’uomo sta bene ma non si sa mai. O le due donne che devono portare un pesce rosso entro mezzogiorno alla fontana per una strana promessa, e ancora il vecchio vicino di casa che mostra a Panahi un video dove viene picchiato e derubato. Ha riconosciuto i suoi aggressori ma non vuole denunciarli: erano in difficoltà economica e all’improvviso, appena il ragazzo che ha portato le aranciate dal bar va via, dice a Panahi che è lui il ladro.Troppo tardi per filmarlo però.

 
C’è poi la scatenata nipotina – Hana, la stessa che a Berlino ha ritirato l’Orso d’oro – che legge al regista il decalogo della sua insegnante di cinema: rispettare la religione, non mostrare la realtà troppo sordida (lo diceva anche Andreotti al neorealismo), per questo il suo film sulla famiglia di vicini che ha cacciato il ragazzo della figlia dopo avere scoperto che è afghano non va bene. Non può proiettarlo al saggio di scuola,non è distribuibile direbbe l’insegnante – cioè disturba, non risponde alle regole, non ha gli attori giusti, è deprimente. Ma in fondo non vale ovunque questa censura del «mercato»?

 

 

È un film sul cinema Taxi, sul fare cinema e sulla vita che ne buca lo schermo col sorriso dell’avvocatessa amica di Panahi mentre racconta di una ragazza arrestata perché voleva vedere una partita. Ora fa lo sciopero della fame e della sete e rischia di morire. «Trasformano la tua vita in un inferno tanto che quando esci il mondo esterno doventa solamente una gabbia più grande» dice la donna.

 

 

L’hanno cacciata dall’ordine degli avvocati perché combatte per i diritti delle persone, a trovare quella ragazza ci va con un grande mazzo di rose rosse.

 

 

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Realtà, finzione poco importa, perché la linea slitta, le storie somigliano a quelle dei film del regista ma lui non le ha scritte a sua volta guardando la vita intorno a sé? Su quel taxi prende forma il sentimento di un Paese, nella sua consapevolezza e nell’abitudine quotidiana, cosa significa vivere sotto un regime di controllo politico, sociale praticato nel caso invocando la religione (anche da noi è un po’ lo stesso quando si tratta di toccare temi sensibili, sessualità, famiglia, gender).

 

 

E la realtà, che è sempre vita, sfugge al controllo dell’immagine come capita alla nipotina del regista quando impone al personaggio del suo film di fare qualcosa, ma infine la realtà scivola da un’altra parte e lui sfugge ai suoi desideri. Nello spazio stretto del taxi giallo Panahi interroga la natura delle immagini, e insieme la posizione del cineasta cosa è nel quadro e cosa vi sfugge, quella tensione che è il senso profondo del cinema.