La nostra tradizione poetica inizia con un grandioso omaggio alle stelle: tutte e tre le cantiche della Commedia di Dante si chiudono con questa parola. Ma che senso hanno, nel mondo dantesco, gli astri e i cieli? Nella cosmologia aristotelico-tolemaica della Commedia – nella quale la parola stella significa in generale «corpo celeste» – il cosmo è diviso in nove sfere concentriche – i cieli, appunto – di cui la più esterna, detta Primo Mobile, trasmette il proprio movimento di rotazione di cielo in cielo, fino a quello più interno.

Ai nove cieli tolemaici Dante ne aggiunge un decimo ancora più esterno, cioè quello «cattolico» (così lo definisce in Convivio II, iii 8) detto Empireo, sede di Dio, degli angeli e dei beati. Questo cielo immobile, ispirato sul piano fisico al primo motore immobile aristotelico, permette di integrare alla fisicità dei cieli l’immaterialità del Dio cristiano: l’Empireo contiene gli altri non in senso fisico – essendo totalmente spirituale non ha luogo concreto – ma in senso causale, poiché provoca il movimento celeste attraverso l’amore che il Creato prova per il suo Creatore, il quale assorbe e risolve in sé ogni moto sentimentale delle creature. È questo il senso del viaggio raccontato nella Commedia, dove l’amore umano di Dante per Beatrice è redento nella dimensione spirituale di guida verso Dio esercitato dalla donna ormai morta e collocata in paradiso.

I due motori
È questa, al di qua e al di là di Dante, la grande questione dibattuta dai poeti delle Origini in merito alla natura dell’amore, come spiega con esemplare chiarezza lo straordinario sonetto anonimo n. 386 tramandatoci dal Canzoniere Vaticano, uno dei tre grandi manoscritti che ci trasmettono la poesia duecentesca. Il testo (edito in Sonetti anonimi del Canzoniere Vaticano, a cura di Paolo Gresti) spiega che mentre gli animali agiscono solo per impulso naturale, e dunque non vivono il conflitto interiore della scelta, l’agire umano è mosso da due «motori», ragione e istinto («Naturalmente animali e planti / fanno tutti loro operazïone / come natura chere, e nonn-avanti, / ché nulli sanno usare discrezione. / Ma l’omo ha due mutori in fatti manti, / natura ed intelletto co ragione»).
L’istinto porta l’uomo all’amore per il mondo, mentre la ragione lo porta al cielo e a Dio: per questo abbiamo «diversa openione», cioè libertà di scelta tra il cielo e il mondo («natura vuole amar, però son tanti /che follemente fanno soduzione: / ’e son seguaci de la volontate / non dicernando lo mal che n’avene, / e così père, per voglia, ragione. / Ma llo ’ntelletto sta con deïtade / e contastare vuol chi non fa bene: però ha l’om diversa openione»).

Tutto il dibattito duecentesco sull’amore è imperniato sul dramma del bivio tra terra e cielo al quale l’uomo è ontologicamente collocato: per questo homo adsimilatur horizonti («l’uomo è simile all’orizzonte») si legge in Dante De monarchia, III, XV 3. Dante trasforma il bivio in una progressione lineare dal mondo al cielo perché Dio, secondo il modello aristotelico del primo motore immobile, «muove in quanto è amato» (Aristotele, Metaphysica 72b3), cioè imprime ai cieli, ai corpi celesti e alle creature terrene un amore che genera un movimento di ritorno a lui, la cui grandiosa immagine chiude il Paradiso: «ma già volgea il mio disio e ’l velle / sì come rota ch’igualmente è mossa, / l’amor che move il sole e l’altre stelle» (Par. XXXIII 143-5).

God_the_Geometer
Le stelle dantesche non sono che una parte della grande catena di trasmissione del rapporto d’amore tra Creato e Creatore che redime e assorbe la finitezza degli amori umani. Tuttavia questa risoluzione del mondo fisico nel cielo divino – cioè questa ottimistica risoluzione dell’amore umano in amore per Dio – vale, nel Medioevo, per i filosofi e i poeti che, come Dante, credono in una coincidenza strutturale tra ordine fisico, ordine teologico delle cause e strumenti conoscitivi dell’uomo: una grande architettura di impianto razionalistico, insomma, in cui la scienza e l’astronomia sono in grado di leggere, capire e descrivere il dispiegarsi di Dio nel mondo e l’universo come concretizzazione dell’ordine divino.
A questa mentalità scientista, cioè alla possibilità che l’astronomia renda visibile – e riduca ad una «meccanica» descrivibile – la volontà divina si erano opposti all’inizio dell’era cristiana i padri della Chiesa: «la geometria e le ricerche aritmetiche, gli studi intorno ai solidi, la rinomata astronomia, vanità opprimente, a quale fine si volgono? Perché coloro che si dedicano a quegli studi hanno creduto questo mondo visibile coeterno a Dio, creatore dell’universo, elevandolo alla stessa gloria che compete alla natura incomprensibile e invisibile», aveva scritto Basilio di Cesarea.
Petrarca, che vive la crisi trecentesca dello scientismo aristotelico medioevale, torna ai dubbi patristici sulla scienza e afferma una sostanziale divergenza tra il mondo, inaccessibile alla scienza a causa della sua radicale contingenza, e Dio, ugualmente inaccessibile alla ragione poiché il suo mistero la trascende; quasi cinque secoli dopo, Leopardi riformulerà lo stesso ragionamento in chiave atea e materialistica. Ridotto a immagine radicalmente transeunte il contingente e a mistero impenetrabile ciò che non è contingente, poco importa, infine, che il mistero coincida con Dio, come in Petrarca, o con la «cieca» natura come in Leopardi: in entrambi i casi la scienza non sa più descrivere il rapporto tra il mondo fisico e le sue cause prime, e la simmetria tra questi due ordini di realtà si perde nel mistero di due diverse inconoscibilità.

La  luna è muta
Presso entrambi i poeti, i cieli e le stelle non esibiscono più con chiarezza il «senso» della loro impronta divina, né si aprono più all’uomo come parte finale di un percorso lineare che va dalla mortalità all’eternità. Il percorso che presso Dante e gli stilnovisti conduceva dall’amore per il mondo all’amore per Dio non esiste più: gli astri rappresentano piuttosto un silenzioso regno che mostra all’uomo il suo mistero fisico nascondendone tuttavia il «senso».

La «silenziosa luna» leopardiana che tace di fonte alle domande dell’uomo – sia esso il pastore errante nell’Asia dei Canti, o la Terra in dialogo con la Luna nelle Operette – è appunto l’astro ormai sottratto all’ottimismo teologico e scientista di Dante non solo e non tanto dalla scienza postcinquecentesca, quanto dall’antiscientismo di Petrarca che ha lasciato sul mondo lirico leopardiano e sui suoi silenziosi cieli stellati un’impronta fortissima, ancora non studiata come meriterebbe.

Nei Rerum vulgarium fragmenta le cose mortali – prima fra tutte Laura – si manifestano agli occhi dell’uomo con la brevità vana ed ingannevole del fantasma: è questo il primo e fondamentale significato della definizione complessiva dell’amore terreno come errore nel primo sonetto che apre il canzoniere petrarchesco. La breve vita umana è sede di un desiderio amoroso destinato ad essere frustrato perché vorrebbe liberare l’oggetto amato dalla sua finitezza senza tuttavia perderlo trasformandolo in spirito: le poesie in morte di Laura narrano una perdita senza riscatto in cui, accanto al valore assoluto delle cose divine espresso nella canzone finale dedicata Vergine, c’è il valore assoluto di ciò che era e non è più e l’irredimibilità, anch’essa assoluta, della morte.

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Formella dell’Astronomia collocata sul Campanile di Giotto

Entrambe le due dimensioni, quella vana e fantasmatica delle cose mortali, e quella eterna dei cieli divini, sono assolute, assolutamente divergenti e non in grado di compensarsi reciprocamente né di essere poste in una sequenza di superamento dell’una attraverso l’altra: è questa l’innovazione petrarchesca del valore della morte dell’amata, che nell’orizzonte stilnovistico, e particolarmente in Dante, era stata vissuta come via di perfezionamento spirituale dalla dimensione umana a quella divina. Rifiutato come inservibile il cielo spirituale, l’amore petrarchesco riscopre invece il sentimento già classico della sua perennità fisica: quella del corso ciclico degli astri, del perpetuo tramontare e risorgere, unico «modello» di eternità desiderabile per l’amante poiché, se fosse accessibile all’uomo, potrebbe salvare l’esistenza fisica dei corpi e la dimensione terrena dell’amore.

 

LE POESIE

Catullo
carmen 5
Viviamo, mia Lesbia, ed amiamo,
e i brontolii dei vecchi severi
stimiamoli tutti un soldo.
Gli astri possono tramontare e tornare:
noi, quando questa breve luce muore,
dobbiamo dormire una notte senza fine.
Dammi mille baci, poi cento, poi
ancora mille e cento ancora
finché, dopo migliaia,
confonderemo i conti per non sapere,
o perché qualche malvagio non ci invidi
sapendo che così tanti baci
possono esistere.
(trad. Sonia Gentili)

 

Francesco Petrarca
Rerum vulgarium fragmenta,
sonetto 291
I vostri dipartir non sono sì duri,
ch’almen di notte sul tornar colei
che non â schifo le tue bianche chiome:
le mie notti fa triste, e i giorni oscuri,
quella che n’a portato i pensier’ miei,
né di sé m’ha lasciato altro che ‘l nome.